Inconscio, mito e follia nei personaggi di Pirandello secondo Michele Placido
Al cinema In sala "Eterno visionario" sulla vita del grande drammaturgo, ma il regista limita l'aspetto biografico.
Al cinema In sala "Eterno visionario" sulla vita del grande drammaturgo, ma il regista limita l'aspetto biografico.
C’è un che di onirico, di notturno, un che di favoloso – già Novalis e poi Nietzsche tracciarono una direttrice che dalle cose e gli esseri portava alla loro verità recondita, intrinseca, Nietzsche dirà «le verità», e che era il filo del «falso», così paradossalmente veritiero nei gangli del linguaggio, l’immaginazione più spinta: la favola –; c’è questo aspetto nell’ultimo film di Michele Placido, Eterno Visionario: le figure (un po’ fantasticate) come inghiottite nel grido ctònio, nella gola di nebbia notturna e degli sbuffi di un treno caliginoso, quasi fogazzariano, in fuga dentro quella gola, quel serraglio di fantasmi, di vuoti devastanti, di assenze, fino ai fumi, ai fuochi fatui, alla fine, nel Mattia Pascal di Chenal. Inconscio e mito, follia e mistero sono i nuclei «fantastici» intorno a cui il Pirandello di Placido si fa corpo, si fa carne talmente umana da essere passibile di auto-mortificazione (lui allo specchio che confessa «la vergogna dei vecchi, con il cuore ancora caldo e giovane»), sottoposta alla canizie, alle tinture per capelli, alla consunzione; si fa umano troppo umano sulla base della «scuola della vita», come la chiama al momento del ritiro del Nobel nel 1934.
È «la vita così come la soffriamo», che dà la stura agli spettri dell’immaginazione, dal fondo tenebroso del tempo, per poi tornare alla vita. Da lì, da quella costante cognizione del dolore, dalle zolfatare brulicanti di bambini pesti, lerci, i Ciaula destinati a scoprire la luna; dalla dimensione domestica in cui esorbitava la pazzia della moglie (un’eccezionale Valeria Bruni Tedeschi), l’amore anche un po’ ambiguo della figlia, Lietta, quello risentito o altrimenti incondizionato dei figli; dalla vicinanza frustrata, abortita di Marta Abba (ottima Federica Vincenti); è da questa pragmatica che sorgono i sogni (o gl’incubi), i fantasmi e gli ultracorpi, le visioni urlanti, rutilanti di questo Pirandello, come nella bellissima sequenza in cui i (sei) personaggi premono dalla membrana cupamente floreale della carta da parati, nella camera da letto – vi si profilano mutrie, ghigni gridanti, «maschere nude» biascicanti livide verità, provenienti dal fondo della terra, da morchie esistenziali, desideri colloidali impastati alla sequela di astri vaganti nell’etere – mentre sul letto, come indiavolata, Antonietta sbraita e si dimena, vomita tutta la propria disperazione nell’aria farneticante, ronzante di delirio.
ANCORA una volta i personaggi di Placido mostrano la loro «letterarietà», il loro metabolismo romanzesco, l’esuberanza tutta immaginifica (di personaggi appunto, non di persone: il tema è evidentemente pirandelliano), il loro essere eccessivi, estremi sul piano del sentire e dell’agire, quindi dell’apparire in quanto inquadratura, com’era in Caravaggio, altro film che a distanza di qualche anno riprende corpo, vigore.
IL REGISTA parte da una minuziosa documentazione, da un apparato filologico di base, si direbbe, su cui costruisce personaggi che travalicano i limiti del biografismo, i confini della persona, per esemplificarsi come personaggi: personaggi da romanzo, a tratti anche da favola; e personaggi teatrali ovviamente, con tutta la loro recita sciorinata, sottolineata, veracemente fasulla. Eppure questo Pirandello possiede un’umanità commovente, elegiaca, nuda, grazie anche all’interpretazione di Fabrizio Bentivoglio, questo magnifico attore a sensibilità spinta, che con il suo «corpo in prestito», col suo ricorrente aggrottarsi di sopracciglia mentre sibila dalle labbra protese uno sbandare d’essere, un incartocciarsi di foglia, l’eterna, ritornante infatuazione per due occhi di donna, riporta in vita ogni volta personaggi del cinema italiano di cui c’eravamo dimenticati, come l’«Alain Delon» della Lingua del santo e con lui il «suo» Mazzacurati. Resta così un uomo, sulla scena, che dopo le molte vite vissute (e immaginate su un palcoscenico), non può che confessare a suo figlio che «scriviamo per vendicarci di essere nati».
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