Un fenomeno resta sempre un fenomeno e Rainer Werner Fassbinder (RWF) lo era e lo rimane ancora oggi – in una battuta: forse il regista più prolifico e insieme provocatore di tutta la Storia del cinema mondiale. I numeri parlano una lingua chiara: in circa sedici frenetici anni di attività, tra il 1966 e il 1982, dopo aver picconato, poco più che ventenne, il teatro tradizionale tedesco, ha diretto 44 film o sceneggiati tv come Berlin Alexanderplatz (da solo di quasi 16 ore), oltre a realizzare 18 sue pièce teatrali (oltre ad altre 5 messe solo in scena) e 4 radiodrammi. Un fenomeno immenso dunque, tra cinema, televisione e teatro, il suo primo amore.

In questi giorni, passano giusto quarant’anni dalla morte, avvenuta per arresto cardiaco, a soli 37 anni, nella notte tra il 9 e il 10 giugno 1982 – era nato il 31 maggio del 1945, tre settimane dopo la fine della Seconda guerra mondiale in Europa. E, alla distanza, continua a cresce la statura intellettuale e artistica di questo grandissimo regista e autore teatrale bavarese. Che non è stato «soltanto» uno dei protagonisti assoluti insieme a Wim Wenders, Werner Herzog, Alexander Kluge, Edgar Reitz, ecc, dell’esplosione internazionale del Nuovo Cinema Tedesco negli anni Settanta ma che oggi appartiene, a pieno titolo, al Pantheon della Settima arte.

Se, all’inizio, la lettura dell’opera fassbinderiana era stata condizionata dalla fortissima carica provocatoria e dall’aura di scandalo delle scelte ideologiche e private, ora, con i costumi (e lo stesso cinema) che sono cambiati, il valore autoriale del suo lavoro può emergere in pieno.

Omosessuale dichiarato, anarchico rabbioso, critico implacabile della società a lui contemporanea, RWF, in tutti i molteplici ambiti artistici in cui ha espresso un talento immenso, ha vivisezionato, in modo impietoso, le colpe e i lati oscuri del suo paese: dalla Germania guglielmina, alla repubblica di Weimar e al Terzo Reich, dal Miracolo economico dell’era Adenauer sino ai tragici anni del terrorismo armato della RAF, morendo poco prima di poter vedere la caduta del Muro di Berlino nel 89’ e l’Unificazione. Così facendo, a partire dal microcosmo della Germania federale, ha dipinto, più in generale, una intera umanità dolente e il tutto, in un arco di tempo, in cui ha bruciato ogni ragionevole tappa umana.

Figlio di un medico e di una traduttrice, Rainer Werner aveva vissuto una giovinezza immersa in quel clima di indispensabile ricostruzione materiale ma soprattutto morale seguita al crollo del nazismo che tanta importanza ha avuto per lui e per tutta la prima generazione post-bellica. L’infanzia era stata segnata dal trauma precoce dalla separazione tra i genitori e il ragazzo non aveva trovato altra soluzione che chiudersi in una sala perdendosi dietro le immagini dei film americani o francesi e diventare un grande cinefilo.

Abbandonato il liceo, dal 1964 al ‘66 prende lezioni di recitazione a Monaco dove incontra per la prima volta la sua futura star Hanna Schygulla, poi, dopo aver realizzato due cortometraggi, inizia la carriera teatrale entrando nel 1967 a far parte dell’Action Theater per fondare, l’anno dopo, l’Antiteater, insieme a una decina di ex-membri del precedente ensemble. E difatti il lavoro di gruppo e con il gruppo resterà, per moltissimo tempo, una della sue caratteristiche creative, uno dei principali propellenti del suo modo di lavorare.

Sin da subito emerge in un’opera che nasce e si sviluppa in modo impetuoso, una attenzione, all’epoca non scontata e molto esplicita, per la figura e il ruolo della donna. Perché i personaggi femminili e poi i deboli, gli emarginati come gli spauriti gangster dei primi film oppure gli omosessuali sono, per lui, i corpi-specchio sui quali meglio controllare gli effetti dell’oppressione sociale del capitalismo e far risultare la dialettica vittima/carnefice che ha costituito la molla primaria della sua Weltanschaaung pessimista.

Grazie all’impegno della Viggo Film, un’ottima occasione per conoscere (o riammirare) la sua straordinaria attività cinematografica sul grande schermo ci è data ora dalla riproposizione, nelle versioni restaurate dalla «Fassbinder Foundation», di cinque dei suoi film più rappresentativi, tra i molti capolavori da lui realizzati.

Si comincia, cronologicamente, dal gangster-movie L’amore è più freddo della morte con cui nel 1969 debutta, da perfetto sconosciuto, al Festival di Berlino un titolo che poi, retrospettivamente, è stato interpretato quasi fosse una (inconscia) dichiarazione di poetica. E poi a seguire: il bellissimo Le lacrime amare di Petra Von Kant (1972, dalla sua omonima pièce teatrale), La paura mangia l’anima (1973), un toccante film sul razzismo quotidiano, il letterario Effi Briest (1974, in uno splendido bianco e nero, dall’omonimo romanzo di Theodor Fontane) ed, infine, Il matrimonio di Maria Braun (1978), il lavoro di Fassbinder più noto oltre i confini della Germania.

A completare il pacchetto e a funzionarne da introduzione audiovisiva, si è aggiunto anche un documentario, sinora inedito in Italia, della regista berlinese Annekatrin Hendel dal titolo Fassbinder, realizzato nel 2015 in occasione del settantesimo anniversario della nascita del regista.

L’approccio scelto dall’autrice è stato quello suggerito da una frase dello stesso RWF («quello che sono, sono i miei film»), una chiave interpretativa che dunque privilegia la stretta simbiosi e sovrapposizione tra arte e vita che ne avrebbe contraddistinto, come un basso continuo, l’operato.

Ne segue una efficace, stringente analisi della carriera artistica, intrecciando materiali d’archivio o inedite sequenze di alcuni film a una ricca serie di testimonianze – innanzitutto alle sue principali «muse» come Hanna Schygulla, Irm Hermann e Margit Carstensen, e poi a collaboratori e colleghi come Harry Baer e Volker Schlöndorff oppure alla montatrice Juliane Lorenz, l’ultima compagna di vita e lavoro, oltre che, successivamente, curatrice della «Fassinder Foundation». Per ridarci così, in novanta minuti, una bella biografia visiva da cui riappropriarci, in modo vivido, di un’epoca rutilante insieme ad questo suo grande, disperato protagonista e testimone.