«Vivevo allora nella polverosa Odessa…» scriveva Aleksandr Puskin in un ipotetico capitolo ottavo dell’Evgenij Onegin mai concluso e dedicato alle peregrinazioni dell’inquieto protagonista nel Caucaso, in Crimea e, per l’appunto, nel sud dell’Impero russo. La prima persona non è casuale: a Odessa lo scapestrato poeta aveva davvero risieduto per un anno intero, a partire dal luglio 1823, allorché lo zar Alessandro I in persona lo aveva spedito laggiù a espiare la stesura di alcuni epigrammi troppo arditi. Destinato a mansioni burocratiche certo non elettrizzanti in qualità di addetto alla segreteria del locale governatore, Puskin troverà comunque il modo di passare piacevolmente il tempo nella bella città portuale da poco fondata sulle rive del mar Nero, complice una relazione amorosa con la moglie del suo diretto superiore, il conte Voroncov.

ODESSA, D’ALTRONDE, era ben diversa dalla grigia e provinciale Kisinev, capoluogo della Bessarabia, precedente tappa del suo esilio, e le strofe dell’Evgenij Onegin ne restituiscono in toni sognanti l’atmosfera cosmopolita e vivacissima: «Laggiù dura a lungo il cielo luminoso, (…) Là tutto respira a un vento d’Europa, / Tutto risplende meridione e si variopinge /Di una viva molteplicità. / La lingua dell’Italia d’oro / Risuona per le vie allegra,/ Dove passano lo slavo altero, / Il francese, lo spagnolo, l’armeno, /E il greco, e il greve moldavo, / E il figlio della terra egiziana, /Moro Alì, corsaro a riposo».

Anche il fatto che la «polverosa Odessa», sorta ai margini della steppa, per cinque-sei mesi l’anno si trasformasse inopinatamente nella «fangosa Odessa», perché le sue vie non erano ancora lastricate, non doveva turbare più di tanto il poeta: «…è disgrazia da poco, / Tanto più se si pensi che il vino / Senza dazio viene importato. / Ma il sole del Sud, ma il mare…/ Amici, cosa volete di più? /Oh paesi benedetti!». E infatti, all’io narrante del suo poema Puskin attribuisce una languida, gaudente routine mediterranea che non doveva differire troppo dalla sua: «Di solito, appena dalla nave / Tuonava il cannone all’alba, /Dalla riva scoscesa, correndo, / Io mi avviavo già verso il mare. /Poi, con la pipa arroventata, / Ristorato dalla salsedine, / Come un musulmano nel suo paradiso, /Bevevo il caffè col fondo alla turca. /Andavo a passeggio». Una delle tappe fisse del suo girovagare per la città erano i «tavoli del confortevole Otòn», il ristorante francese di César Automne, dove la gioventù dorata di Odessa accorreva «a trangugiare dai loro gusci marini» le ostriche appena arrivate da «Tsariengrad» (alias Costantinopoli), ovviamente «con una spruzzatina di limone»: «Le ore volano, e il conto minaccioso / Intanto cresce senza parere».

Incamminandosi lungo il boulevard alberato di via Derybasivska e scendendo verso il porto, Puskin non poteva imbattersi in quello che sarebbe diventato il monumento più iconico di Odessa, ossia la scalinata neoclassica lunga duecento gradini eternata da Sergej Ejzenstein nella sua Corazzata Potëmkin – l’architetto italiano Francesco Boffo l’avrebbe progettata solo un decennio più tardi, nel 1835.

In compenso, uscendo dall’Hotel Rainaud dove risiedeva (provvidenzialmente situato nelle immediate vicinanze del ristorante Automne, sempre lungo via Derybasivska), e percorrendo la via intitolata al duca di Richelieu, governatore della città all’inizio del secolo, il poeta raggiungeva in quattro e quattr’otto uno dei suoi luoghi preferiti: il teatro dell’Opera, inaugurato nel 1810, distrutto completamente da un incendio nel 1873, e poi ricostruito nello stile neobarocco viennese.

Di certo già ai tempi di Puskin doveva essere il fulcro della vita sociale della città: «Ma già si ottenebra l’azzurra sera, / Dobbiamo andare all’opera in fretta: / Dànno l’inebriante Rossini, / D’Europa il beniamino – l’Orfeo (…) E spande suoni – che ribollono, /Scorrono, ardono (…) Come del frizzante Ay /Lo zampillo e gli spruzzi d’oro…/ Ma signori, è lecito forse / Al vino paragonare il do-re-mi-sol?».

MA, COME RICORDA la strofa successiva, gli incanti dell’Opera di Odessa non consistevano soltanto nell’acustica della sua sala; ancora più eccitanti per il poeta dovevano essere «i convegni dietro le quinte», presumibilmente troncati dal grido fora!, con cui il pubblico chiamava alla ribalta gli artisti.

L’Opera, ma anche l’imponente ensemble architettonico neoclassico della piazza intitolata al Duca di Richelieu, così come il viale non meno grandioso che conduce al mare, e ovviamente la scalinata di Potemkin – tutti questi monumenti della città fondata da Caterina II nel 1794 rientrano in una lista che già dal 2009 è al vaglio dell’Unesco per l’inserimento fra i beni dell’umanità. Di fronte alla minaccia di ulteriori bombardamenti da parte delle forze armate russe, il sindaco di Odessa Gennadij Trukhanov ha chiesto di recente al governo ucraino di fare pressione sull’Unesco affinché il processo di riconoscimento acceleri, e sarebbe bello che una decisione in tal senso giungesse a breve, magari per il 10 aprile, giorno in cui la città commemora la fine dell’occupazione tedesco-rumena durante la seconda guerra mondiale. Davvero i russi possono bombardare una città così amata dal loro stesso poeta nazionale?

(Le citazioni sono tratte dall’edizione Garzanti dell’«Evgenij Onegin», nella traduzione di Giovanni Giudici)