Ha raccontato una volta Guillaume Apollinaire che a casa di Alfred Jarry, l’inventore della ‘patafisica, c’era solo un piccolo quadro, un ritratto fattogli dal Doganiere Rousseau; ma vi spiccava una scultura di Félicien Rops, un «fallo in pietra notevolmente più grande del normale». Una volta una dama elegante andò a trovare il sulfureo e già leggendario Jarry, e restò turbata dall’«esotico monolite». È un calco?», chiese. E lui, raggiante: «No, è una riduzione». Non si può non pensare a questo aneddoto del nonno del surrealismo (se il papà era l’Apollinaire delle Mamelles de Tirésias) quando guardiamo la foto più celebre di Louise Bourgeois, che le fece nell’82 Robert Mapplethorpe (per promuovere la mostra al Moma che finalmente, a settantun anni suonati, la «lanciò»): la signora ci guarda con un sorriso fiero reggendo la sua scultura Fillette, cioè un cazzo di pietra lungo più di mezzo metro. Il museo usò l’immagine ma tagliandola a mezzo: così censurando l’oggetto scandaloso.

RICORDA L’EPISODIO Carolina Sprovieri nel bel saggio Louise Bourgeois e Carol Rama (Electa, pp. 88 ill. col., euro 22), tratto da una ponderosa tesi di dottorato della Sorbona, e la dice lunga sul travaglio che accompagnò questa tardivissima canonizzazione; nonché sul turbamento che, per motivi magari (in apparenza) contrari, ancor oggi può destare la sua opera. Sebbene a giorno degli studi gender oggi egemoni, Sprovieri mette in guardia da una semplificata lettura «femminista» dell’artista che una volta disse decisa: «Non esiste un’estetica femminista. Assolutamente no! Esiste un contenuto psicologico. Ma non lavoro come lavoro perché sono una donna. È per le esperienze che ho attraversato».

Carol Rama , 2003 foto di Oliver Mark

Quella della giovane studiosa è dunque una lettura che l’identità di genere, e più in generale le marche del vissuto, recupera meta-biograficamente, attraverso la preminenza del corpo: non solo «tema» dell’opera ma sua condizione operativa – legata alla malattia: dove (come osservato una volta da Virginia Woolf) lo stato alterato dell’organismo (ivi compresa la psiche, si capisce) è un acceleratore dell’esperienza e delle percezioni, e dunque paradossalmente una condizione di «forza», anziché di debolezza. È un assunto di marca deleuziana quello per cui all’operare è legato il divenire del corpo, e non il suo statuto «identitario». Per questo centrale è la vecchiaia: non solo perché l’opera di Bourgeois diventa formidabile ben al di là della soglia ascritta allo «stile tardo», ma perché è invecchiando che il divenire del corpo accelera, drammaticamente ma anche giocosamente.

COME DICEVA appunto Deleuze, la licenza (e diciamo pure la licenziosità) dell’età tarda (uno «stato selvaggio», secondo Svevo) «permette di mettere in scena la follia e la malattia, di giocare con gli osservatori e di rendere opachi i limiti tra realtà e finzione, tra la vita e l’opera».

Questa mascherata, che drammatizza iperbolica un vissuto davvero traumatico, mostra ancor più chiara la sua ambiguità nel «caso» parallelo di Carol Rama: più giovane di sette anni ma «scoperta» a sua volta dopo i settanta. Lei come l’altra, scrive Sprovieri, «opera una vera e propria messa in scena di ciò che ha generato sofferenza e si prende così gioco dello spettatore» (a Lea Vergine disse Rama una volta: «quando mi fotografano io mi preparo travestendomi. Poi prendo sempre in mano un oggetto, qualcosa che mi ritrae»: evidente l’analogia con Bourgeois nello scatto di Mapplethorpe).

Il discorso sarebbe lungo, ma si può tagliar corto coi versi più citati di Fernando Pessoa (Autopsicobiografia): «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente»