In viaggio con gli spiriti impalpabili dei paesaggi
Scaffale «Il dio degli Incroci» di Stefano Cascavilla, per Exorma. L'autore parte alla ricerca della sacralità dei luoghi che da troppo tempo non riusciamo più a scorgere, lungo un itinerario che dal Massiccio del Terminillo lo conduce fino a New York
Scaffale «Il dio degli Incroci» di Stefano Cascavilla, per Exorma. L'autore parte alla ricerca della sacralità dei luoghi che da troppo tempo non riusciamo più a scorgere, lungo un itinerario che dal Massiccio del Terminillo lo conduce fino a New York
Il dio degli Incroci. Nessun luogo è senza genio di Stefano Cascavilla (Exorma, pp. 283, euro 16) profuma di bosco millenario, gorgoglia di sorgente arcaica e risuona di notte stellata su un deserto primordiale, ed è uno di quei libri che richiedono letture «a più fiate», lente e centellinate per assaporarne le suggestioni, per spostarsi da un angolo all’altro del globo, dal Massiccio del Terminillo alla Karakorum Highway, dalla valle dell’Homboro in Pakistan a Times Square a New York, con il suo vorticoso carico di energie, e percepire l’Anima del mondo nella sua potenza e interezza.
CONCETTO ASTRATTO questo, cui l’uomo moderno non è più avvezzo, vivendo immerso in una dimensione materiale desacralizzata in cui l’invisibile non ha dimora, sminuito nella sfera del superstizioso e irrazionale dalla coscienza moderna che pone l’io al centro del tutto, ma profondamente radicato nell’animo dell’uomo arcaico, la cui coscienza antica, o «a basso regime» e di «partecipazione mistica», percepisce l’io come infinitesimale parte del cosmo e l’uomo come frazione insignificante dell’universo; per lui il dio del luogo è una certezza, come il sorgere del Sole.
Del suo incontro con il vulcano di Antigua, Cascavilla, viaggiatore, architetto, appassionato di psicologia analitica e amante della montagna, racconta: «Fu in quel momento che lo vidi. Un colosso muto e oscuro, più alto di qualsiasi cosa, nel cielo limpido che si tingeva di rosso. Rimasi a fissarlo ipnotizzato mentre le prime auto cercavano di schivarmi suonando. Poi presi a vagare per il villaggio, scattando un po’ a caso, cercando un caffè. Ma il vulcano non mollava la presa. Il luogo era saturo, letteralmente dominato dalla sua presenza… Nessuno sembrava rivolgergli attenzione, ma il vulcano era lì, con la sua mole, la sua energia, incatenando a sé tutto lo spazio, le persone, e un po’ alla volta anche me. Un vulcano è un gigante di roccia con un mare incandescente dentro. Una presenza geologica, tellurica», e si chiede cosa sarebbero Antigua, Napoli, Catania senza i loro vulcani.
Che la si voglia chiamare «anima», «genius» o «dio del luogo», questa presenza rarefatta eppure essenziale permea l’ontologia del paesaggio e dei suoi abitanti con un carattere ancestrale inconscio e archetipico al limite della concezione umana. Di questo spirito impalpabile ma vitale partecipano i guardiani dei crocevia nelle campagne della Boemia meridionale così come le potenze invisibili lungo il Mississipi, nei villaggi Dogon del Mali, nelle tradizioni vediche buddiste e nel cammino di San Benedetto, lungo il quale è possibile ascoltare il nulla e lasciarsene abbracciare.
SPERANZA DELL’AUTORE e del suo instancabile peregrinare, nonché esortazione ripetuta lungo tutto il volume, è dunque quella di ritrovare nei luoghi la sacralità che da troppo tempo non riusciamo più a scorgervi, quel dialogo perduto che, secondo Ortega y Gasset, l’uomo antico intratteneva invece spontaneamente «con i suoi poteri elementari e con il cosmo vivo che aveva davanti a sé, articolato e senza scissioni, torrente di energie specifiche creatrici e distruttrici dei fenomeni».
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