In viaggio alla ricerca del tempo perduto
Narrativa «La tigre di Carta» di Olivier Rolin per le Edizioni Clichy
Narrativa «La tigre di Carta» di Olivier Rolin per le Edizioni Clichy
È possibile parlare del Sessantotto, e in particolare del Maggio francese, a distanza di tanti anni, restituendone appieno la complessità e il sapore più vero, senza alcuna retorica, senza pregiudizi, evitando sia l’esaltazione fine a se stessa sia la denigrazione preconcetta? Al di là di saggi, inchieste, repertori di documenti più o meno validi e riusciti, dovrebbe essere l’arte a farsene carico, producendo opere in grado di restituire l’atmosfera e l’essenza di quel periodo. In campo cinematografico registi come Bernardo Bertolucci con The Dreamers e Philippe Garrel con Les amants réguliers si sono fatti carico magistralmente di tale compito, declinando l’argomento in modo originale e secondo la propria visione personale, ma riuscendo a comunicare, allo stesso tempo, quello che una volta si sarebbe definito lo Zeitgeist, ovvero lo «Spirito del Tempo».
In campo letterario c’è un libro, uscito in Francia nel 2002, definito non a caso da «Le Monde» «il più importante romanzo sul Sessantotto e sul Maggio Francese», che ha finalmente trovato la strada, grazie alle Edizioni Clichy, per arrivare anche in Italia. Si tratta di Tigre di carta (pp. 288, euro 17) scritto da Olivier Rolin, all’epoca militante di spicco del movimento e attualmente scrittore affermato, con all’attivo vari premi letterari.
Persi nell’anello stradale
Il romanzo è scritto in prima persona. Il narratore, alter ego dello stesso Rolin, incontra a una festa di vecchi compagni Marie, la giovane figlia di Treize, il suo amico più caro, morto da tempo. Mancano pochi giorni al primo solstizio del XXI secolo e la ragazza gli chiede di parlarle del padre, a lei praticamente sconosciuto. I due si allontanano insieme e, dopo aver recuperato Remember, la vecchia DS grigio argento del narratore, iniziano una sorta di viaggio prevelentemente lungo la périphérique, l’anello stradale che circonda la città di Parigi. Inizia così il racconto di quel periodo, un racconto che si dipana nel tempo e nello spazio. La narrazione, infatti, non si limita agli eventi del Sessantotto e degli anni immediatamente successivi, ma investe un periodo di tempo anche di molto posteriore oltre ad eventi accaduti in un passato più lontano, come l’infanzia del narratore o la morte di suo padre, ex-combattente con De Gaulle e poi ufficiale in Indocina, ucciso in Vietnam dall’esplosione di una granata del cannone della stessa motovedetta francese su cui si trovava.
Oltre le meschinità
Il racconto non è mai lineare: gli eventi, gli episodi, i fatti si intrecciano gli uni con gli altri, accavallandosi e mescolandosi tra di loro. Il tono è assolutamente colloquiale, ricco di digressioni e di rimandi a canzoni, libri, autori. Il tutto scandito quasi dalle insegne luminosi e dai cartelli pubblicitari che si vedono dalla macchina. Insomma, andando avanti la narrazione si espande, si complica, non si limita semplicemente a focalizzarsi sul padre della ragazza, ma sembra esplodere, disegnando, però, in questa maniera una sorta di affresco dell’epoca che riesce a renderne il sapore più autentico, illuminandone i tratti creativi, giocosi, le lotte, la complicità e la solidarietà. Ma anche gli aspetti più cupi: la fedeltà incrollabile alla Causa e al Grande Dirigente (dalle iniziali della carica chiamato Gédéon), le meschinità individuali e collettive, la distruzione di rapporti interpersonali, come, ad esempio, dimostra la storia d’amore tra due compagni, Winter e Cosette, costretti a interrompere la loro intensa relazione perché spediti a fare lavoro politico in due luoghi diversi e lontanissimi.
Il gomitolo del «noi»
Del resto, far esplodere il discorso, allargarlo a dismisura è anche l’unico modo per parlare del singolo, di Treize: «Marie, non posso parlarti di lui senza parlarti di noi. Non so come fartelo capire, non eravamo assolutamente dei “me, degli “io”, a quell’epoca. Era una cosa che apparteneva al nostro essere giovani, ma soprattutto apparteneva a quell’epoca. L’individuo ci sembrava trascurabile, e perfino disprezzabile. Treize, tuo padre, mio eterno amico, era uno dei nostri. Un filo di un gomitolo. Non posso sbrogliarlo, dividerlo, strapparlo da noi, sennò lo farei morire una seconda volta. Senza di noi, la sua immagine sbiadirebbe – senza “noi” ogni memoria scompare». E ancora: «È quando non ci capirai più niente, quando confonderai tutti, che avrai un’idea di come eravamo, di come era tuo padre in mezzo agli altri». E anche se «oggi tutti i benestanti si vantano di trovare comica questa storia, una vera farsa (…). Vorrebbero, in effetti, essere rimborsati per la loro paura: perché all’epoca posso dire che avevano una fifa boia. Sia quelli che aspiravano alla gloria, al potere, al denaro – e che adesso ce l’hanno –, sia quelli che lo possedevano già. E parte del loro attuale odio deriva da lì: aver avuto così tanta paura».
Un libro davvero bello e importante Tigre di carta, un libro denso, dall’andamento sinuoso, a spirale, in cui, tra l’altro, emerge in maniera potente il nesso che lega verità e memoria: «Attenzione (…) non bisogna credere a tutto quello che racconto. E non è che cerco di dissimulare, di deformare qualcosa: è che la mia memoria è ormai solo dissimulazione e deformazione». Eppure è soltanto a partire da questa dissimulazione e deformazione, costitutiva della memoria, che, quasi proustianamente, il tempo perduto può diventare tempo ritrovato.
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