In un diluvio di note il sistema travolgente di Cecil Taylor
Musica Morto a 89 anni il grande pianista, insieme a Ornette Coleman fra i pionieri generatori del free jazz
Musica Morto a 89 anni il grande pianista, insieme a Ornette Coleman fra i pionieri generatori del free jazz
A ottantanove anni è morto nella sua casa newyorkese Cecil Taylor; come in un fuoco improvviso, il suo corpo – così centrale in una poetica focalizzata su fisicità, gestualità, parola e danza – si è arreso. Chiunque abbia amato la musica del suo pianoforte non vedrà comunque arrestarsi il flusso travolgente di energia sonora-artistica-esistenziale che promanava dallo strumento. Insieme ad Ornette Coleman è stato uno dei «generatori» del free jazz nella seconda metà degli anni ’50. All’epoca il linguaggio del pianista era già molto avanzato e se si vuole definire questa musica come «informale» (gemellandola alla pittura) il paragone è calzante.
Che suoni in trio (con Jimmy Lyons e Sunny Murray), in solo o con le Unit (gruppi più vasti), la musica del pianista è densa, polifonica, poliritmica, fitta di frammenti e filamenti melodico-timbrico-percussivi che ne fanno un unicum. La sua tecnica smagliante (studi classici alle spalle) e l’approccio al pianoforte come se fosse un gigantesco «tamburo» parlante hanno prodotto, con radicale costanza, una musica ad alto rischio, iperbolica, capace di furori parossistici come di tenerezze liriche, brani che ambivano grandi spazi a mo’ di murales o graffiti, preziosi e dettagliati come una miniatura.
Cecil Taylor ha sofferto per imporre la sua estetica e lo raccontò nel 1966 A.B. Spellman in Four Jazz Lives (Quattro vite jazz. C.Taylor, O.Coleman, H. Nichols, J.McLean, minimum fax 2013). «Ciò che rende queste vite degne di nota è la grandezza della musica che hanno prodotto. La più complessa, quella meno compiacente verso l’ascoltatore, è quella di Cecil Taylor. Non è musica di sottofondo, non la sentirete mai in ascensore (…) Si tratta di musica concepita con la massima cura, che si sviluppa sempre seguendo un sistema e delle strutture meticolosamente studiate. In quel diluvio di note (…) si può riconoscere una qualità lirica spesso tenera, e sempre toccante» (p.15). Nel tempo la determinazione di Taylor gli ha dato ragione e successo; ricorda ancora Spellman (Prefazione 2004) che il pianista è stato composer in residence per la John Hopkins University, ha avuto una borsa di studio dalla fondazione MacArthur, commissioni da quella Rockfeller, ha comprato casa a Brooklyn.
Nato nel marzo 1929 a New York, Taylor deve alla madre e alla nonna (indianoamericane, con ascendenti scozzesi) la passione per le arti e per la musica, vissute da bambino e praticate da adulto senza separazioni. Studia il piano e le percussioni, si interessa alla danza, si dedica ad attività sportive, frequenta il New England Conservatory di Boston (arrangiamento e armonia). La sua è una formazione complessa che darà i propri frutti dal 1957, dal duo con Steve Lacy (di cui sarà insegnante). Imponente l’attività concertistica e la produzione discografica, con album eccellenti in tutti i decenni di un carriera inesausta (Conquistador, 1966; Jitney n.2, 1974; Historic concerts con Max Roach, 1984; The Willisau Concert, 2000). Nel 1999 e nel 2009 persino Umbria Jazz invita Cecil Taylor, riconoscendo la statura di un artista lontano dalla filosofia sonora della rassegna.
L’Italia e l’Europa, del resto, al pianista hanno spesso aperto i loro spazi: gli album prodotti dalla Soul Note, la collaborazione con l’Italian Instabile Orchestra (con il cd The Owner of a River Bank realizzato nel 2000 al Talos Festival di Ruvo di Puglia), le presenze a Sant’Anna Arresi, i tour in Scandinavia, le rassegne a Berlino della FMP con incisioni e produzioni realizzate dal pianista insieme a vasti ensemble, i passaggi a Banlieues Bleues. È successo, ma il flusso tayloriano scorrerà ancora, a lungo.
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