Serbia, Vucic stravince. L’astensione è primo partito
Balcani La lista del presidente incassa il 62,6% ma è record negativo per l'affluenza. Le opposizioni che hanno boicottato le elezioni rivendicano il dato
Balcani La lista del presidente incassa il 62,6% ma è record negativo per l'affluenza. Le opposizioni che hanno boicottato le elezioni rivendicano il dato
Non vince, ma stravince il presidente serbo Aleksandar Vucic la cui lista «Per i nostri figli» incassa il 62.6% dei voti nelle elezioni di domenica scorsa per il rinnovo del Parlamento, le prime a tenersi in Europa dalla fine del lockdown. Una vittoria senza precedenti che si traduce in 189 dei 250 seggi del Parlamento. Dietro, di gran lunga, la lista guidata dall’alleato di Vucic, il socialista Ivica Dacic, che con il 10.9% dei voti conquista 32 seggi.
NELLE ELEZIONI senza sorprese fa il suo ingresso in Parlamento la formazione di centro-destra dell’ex pallanuotista ed ex sindaco di Novi Beograd, Aleksandar Sapic che riesce a superare la soglia di sbarramento e a guadagnare 12 seggi.
Dentro i partiti delle minoranze etniche, niente da fare invece per il Partito radicale serbo del criminale di guerra Vojislav Seselj, fagocitato dal suo stesso delfino, Vucic, né per tutte le altre liste, alcune delle quali balzate agli onori della cronaca per i loro discutibili rappresentanti: dal “capitano Dragan” Vasilikovic, condannato a 15 anni di carcere per crimini commessi contro civili e poliziotti croati nel 1991, agli animalisti neofascisti del Levijatan, noti per le loro posizioni anti-migranti.
Ad adombrare la vittoria di Vucic, schiacciante anche nelle amministrative, è però il dato sull’affluenza, ferma al 47.7%, la più bassa mai registrata nella storia della Serbia dal 1990. Non una questione di lana caprina: l’Alleanza per la Serbia (Szs), il variegato blocco delle opposizioni che tiene insieme partiti dell’ultra-destra, di centro e di sinistra, ha impostato la sua campagna sul boicottaggio, volendo in questo modo denunciare l’iniquità e la non democraticità del voto.
Un film già visto alle amministrative in Albania dell’anno scorso, segnale preoccupante di un profondo deterioramento della democrazia in quasi tutti gli Stati dell’ex Jugoslavia. Un deterioramento che affonda le sue radici nella “cattura” di questi stessi Stati da parte di leadership corrotte e delegittimate che si reggono grazie a una capillare rete clientelare che consente loro di controllare tutto: media, istituzioni, economia.
IL CROLLO DELL’AFFLUENZA quindi sarebbe da interpretare come una vittoria delle opposizioni, come rivendicato da Dragan Djilas, esponente dell’Szs? Non proprio. Sulla bassa affluenza potrebbe aver pesato il fattore covid: con il virus ancora in circolazione una parte degli astenuti potrebbe non essere andata al voto per paura del virus ancora in circolazione. E poi c’è un dato politico, quello che restituisce di più la drammaticità della scena politica serba: l’irrilevanza delle opposizioni, la scarsa solidità della loro offerta politica e il sentimento diffuso di disaffezione che allontana sempre di più i cittadini dalla politica.
Emblematico in questo senso è il caso di Belgrado dove l’affluenza è crollata al 31%, arrivando addirittura al 26% nel centro storico della capitale. Insomma, queste elezioni sembrano voler dire che oltre Vucic non c’è che Vucic.
LO HA BEN SINTETIZZATO Sergej Trifunovic, leader del movimento dei cittadini liberi (Psg), criticato per essere uno degli esponenti dell’opposizione ad aver partecipato alle elezioni: «Non ci sarebbe stato da festeggiare nemmeno se avessimo raggiunto l’8%. Questa società è profondamente malata e noi ci batteremo per curarla. Ci batteremo fino alla fine».
Eppure non è detto che Vucic un giorno non abbia a maledire questo trionfo senza precedenti. La lista del presidente da sola detiene la maggioranza dei due terzi in Parlamento, quanto basta per modificare da solo la Costituzione. E un punto in particolare: quello riguardante la sovranità sul Kosovo.
Vucic, come noto, se ne vuole liberare attraverso un accordo che consentirebbe a Belgrado di recuperare il Kosovo del Nord e a Pristina di ottenere in cambio la valle di Presevo, regione serba a maggioranza albanese. Un accordo su cui l’amministrazione Trump preme già da tre anni e che ha incontrato una blanda opposizione da parte dell’Ue, divisa com’è tra favorevoli e contrari. Tanti sono stati i giri di valzer di Bruxelles che alla fine Washington ha preferito entrare a gambe tese su una questione che finora era appannaggio dell’Ue.
MA A GUASTARE I PIANI di Vucic potrebbe esserci il suo storico alleato, Mosca. Putin, inizialmente favorevole, ha tutta l’intenzione di far valere il suo peso politico riportando la discussione in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu dove la Russia ha diritto di veto. Il motivo è semplice: contrastare l’influenza della Cina in Serbia, accresciuta in modo esponenziale durante i mesi della pandemia, e scongiurare l’eventuale ingresso della Serbia nella Nato. Vucic potrebbe quindi non riuscire a portare a casa l’accordo agognato. E a quel punto il plebiscito potrebbe rivelarsi un boomerang.
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