Queste note sono state ispirate dal cambiamento critico indotto da The Black Atlantic (1993, pubblicato in Italia da Meltemi) di Paul Gilroy. Tuttavia, se quest’opera registra in modo cruciale la costituzione razziale dell’economia politica, delle lingue e delle istituzioni del mondo atlantico moderno e la creazione dell’Occidente, fa anche qualcosa di più. Propone una profonda riflessione intorno a ciò che passa per storia e conoscenza, mettendo in discussione la loro grammatica e interrogando il loro modo di disciplinare la condizione contemporanea.

ARCHIVI FLUIDI sospesi nell’acqua sostengono memorie acquatiche che collegano corpi d’acqua a corpi nell’acqua: dall’Atlantico Nero all’odierno Mediterraneo Nero. Registrando il mondo marino come fondamentale per la costruzione della modernità – dalle navi negriere e dagli imperi marittimi alla logistica dei container, all’estrazione industrializzata delle sue risorse (dal pesce ai combustibili fossili) e alla centralità delle migrazioni intercontinentali per l’epoca moderna – incontriamo la brutale consistenza del colonialismo nel razzismo ossessionante che produce la violenta grammatica dell’inospitalità, oggi incisa nei «geroglifici della carne» (Hortense Spillers) sul corpo del migrante contemporaneo.
Ciò porta a quello che Denise Ferreira da Silva ha definito un momento di conoscenza contrario al sapere moderno, che lei, prendendo in prestito da Octavia Butler, chiama una «lingua straniera».
A differenza delle cronologie lineari e delle storie accreditate, tali ritmi e deviazioni liberano dalle dinamiche ricorsivi altre narrazioni inconcludenti impigliate nell’indeterminatezza e nella contingenza. Ci ritroviamo in mare sotto cieli più ampi e turbolenti. Un necessario riorientamento interrompe e rielabora il modello terra-centrico occidentale della storiografia, della sociologia e della filosofia, bucando la loro fede nel rendere il mondo trasparente alla loro volontà.
E poi, immergendoci più a fondo nell’archivio, seguendo il filo dello storico afroamericano Cedric Robinson, siamo condotti attraverso le piantagioni delle Americhe, le fabbriche di cotone di Manchester e la costa atlantica dell’Africa, fino alla costa orientale del Mediterraneo, dove i mercanti italiani nei Balcani e nei porti medievali del Mar Nero sulle steppe acquistano gli slavi per i mercati degli schiavi del Cairo e di Genova, di Venezia e di Napoli.

DALL’ATLANTICO NERO al Mediterraneo nero, i mari dell’espropriazione e della non appartenenza hanno costantemente messo a nudo i limiti politici, giuridici e onto-epistemologici della modernità coloniale. Promuovono una critica costante alle premesse liberali e possessive della democrazia occidentale. Oggi, coloro che si trovano sull’acqua nelle loro piccole barche e nei loro gommoni, i miserabili del mare, i dannati del Mediterraneo, non possono trovare la loro identità nel territorio dello Stato nazionale. La giustizia fallisce. Senza documenti che ne attestino la libertà, sono prigionieri: oggetti ridotti all’anonimo spazio giuridico un tempo occupato dagli schiavi. Senza diritti, sono senza un posto riconosciuto nel mondo. Rifiuti.
Come sottolinea efficacemente Sylvia Wynter nello smontare la cosmologia occidentale, lo svilimento, la gerarchizzazione e l’alterazione della vita umana sono al centro della costituzione politica del moderno Stato-nazione europeo e della sua appropriazione del pianeta. Nel frattempo, gli esclusi e i negati sostengono buchi neri di energia storica e culturale concentrata che continuano a esistere e a resistere. La loro persistenza provoca la fine di una particolare costellazione storica e filosofica e l’inaugurazione di un’altra. Ricompongono la modernità, ne tagliano i linguaggi, ne rimescolano le coordinate, esercitano il diritto di vivere in un altro presente da dove proporre un futuro alternativo. Questo ci riporta all’insistenza gramsciana e fanoniana, così eloquentemente perseguita da Stuart Hall e Paul Gilroy, secondo cui il tessuto della cultura è la sostanza fondamentale della vita politica.

COME FORMA DI VITA subalterna oggi più chiaramente identificata dalla legge, dalla sorveglianza e dal discorso pubblico occidentali nel «migrante illegale» (e chi l’ha deciso?), le sue pratiche e i suoi saperi non autorizzati, costruiti in movimento, propongono una forma di pirateria politica che espone tutti i limiti di una presunta democrazia e dei suoi concetti di libertà e di cittadinanza. Esistono altre equazioni, costruite e codificate nella molteplicità di altri corpi che contano, non solo il mio. Ci troviamo in acque molto più profonde, alla deriva rispetto all’imperativo colonizzatore dell’episteme occidentale e a quella che Ruth Gilmore Wilson chiama con forza «vulnerabilità alla morte prematura».

AL DI LÀ DELLA NOTA TESI di Giorgio Agamben sulla «nuda vita», il migrante, al fianco di altre vite negate, propone uno stato eccezionale che espone i limiti dell’umanesimo europeo e della sua custodia dei diritti universali. Siamo portati sulla spiaggia per avventurarci oltre Agamben e gran parte della filosofia moderna, per la quale la filosofia è l’Occidente e l’Occidente è la filosofia. Il migrante, anche se muto e privo di vita, scompone il paradigma politico e filosofico dell’Europa. La sua presenza mette in discussione la mia autorità nel mondo. Questo spiega la paura e la violenza della risposta.
Oggi, l’«autonomia» di coloro che praticano tutte le difficoltà della «libertà», al di sotto e al di là dei confini brutali dello Stato-nazione, piega e rompe le frontiere stabilite dell’identità e della cittadinanza. Il migrante, come la resistenza indigena, la vita nativa non bianca e i poveri del pianeta, ribadisce la richiesta di Frantz Fanon di esigere dall’altro un comportamento umano. Noi siamo quell’altro.

CONTRO GLI AGGIUSTAMENTI limitati del liberalismo multiculturale, questo evoca l’umanesimo planetario così persistentemente perseguito nell’opera di Gilroy che, come hanno insistito Aimé Césaire e Fanon, si deve misurare con il mondo, non solo con l’Europa e l’Occidente.
Non si tratta quindi semplicemente di storie dal basso o di presunte periferie che riconfigurano i centri di potere e i loro linguaggi. Al contrario, l’introduzione di coordinate, corpi e vite non autorizzate ci costringe a riconoscere la negazione violenta che costituisce il nostro presente; cioè a mettere in discussione la temporalità e la terminologia della narrazione ereditata e delle sue pedagogie istituzionali. Piuttosto che un aggiustamento attraverso il recupero della resistenza e del rifiuto, ci troviamo di fronte a un’ulteriore disfatta e riconfigurazione di ciò che intendiamo con termini come storia, documenti, archivi, testimonianze, genocidio e memoria, poiché ci chiediamo chi abbia il diritto di narrare, definire, dirigere e spiegare… di avere diritti.

I MITI DELLA NEUTRALITÀ e delle scientificità delle scienze sociali si dissolvono ed evaporano. Al suo posto, la pratica aperta e precaria della registrazione sovverte la logica distanziante e il controllo della rappresentazione colonizzata.
Questo disfacimento delle nostre abituali concezioni del tempo e dello spazio, della storia e della geografia, dinnanzi alla registrazioni della vita, del luogo e della morte altrui, produce ciò che Paul Gilroy in The Black Atlantic ha definito una «struttura rizomatica e frattale». O, come disse il jazzista afro-futurista Sun Ra: «Cambia il tuo tempo in un fattore sconosciuto». Questa è la composizione mobile di uno spaziotempo meno garantito; quella che io chiamerei storia quantistica. È qui che l’orologio coloniale viene contestato e interrotto da altri tempi, dalle temporalità, dai ritmi e dal passo delle altre e degli altri.