Cultura

In prima persona, ma sempre plurale

In prima persona, ma sempre pluraleIkon images, foto Ap

Itinerari critici «Cosa significa essere umani?» di Vittorio Gallese e Ugo Morelli, per Cortina. Tra filosofia e neuroscienze, un saggio indaga il filo che lega corpo, cervello e la relazione con l’altro. La convinzione che l’Io sia il cuore dell’universo è così radicata in Occidente che è sempre valido il richiamo di Nietzsche alla zanzara che si sente anch’essa «il centro di questo mondo». La teoria dell’uomo come animale sociale in chiave cooperativa, sottolineata da Marx, emerge anche dagli studi, citati nel libro, che paragonano cuccioli di scimpanzé e piccoli umani

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 26 giugno 2024

In principio era il noi. In principio era la relazione. Vittorio Gallese e Ugo Morelli provano a ricordarci che cosa significa essere umani e l’uscita di questo libro (Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Cortina, pp. 291, euro 16) è più che mai importante in un momento storico come il nostro dove la domanda sull’essere umani rischia di diventare ancora una volta un dubbio sul senso della nostra umanità. Ancora una volta stragi e massacri, guerre e aggressioni, e ancora una volta come se ciò non fosse mai accaduto o, peggio, in nome dell’umanità, della libertà, della giustizia. «Non smettiamo mai di pensarci, domandarci chi siamo e cosa esprimiamo in ogni momento e situazione, con una riflessione latente, continua, inconscia e principalmente tacita», scrivono Gallese e Morelli nella Prefazione, e ammettono che «le risposte sono incerte, cangianti, spesso inquietanti e qualche volta soddisfacenti».

SENZA NASCONDERSI la problematicità della domanda su che cosa significa essere umani, gli autori ci danno, tuttavia e per fortuna, la possibilità di dare uno sguardo sul futuro o almeno sulla necessità di includere nella riflessione e nell’autoriflessione non solo mondi reali ma anche mondi possibili. Cominciano dal corpo. «Siamo e abbiamo un corpo», ciò significa che siamo sì materia, ma riusciamo anche a vederci dall’esterno. Siamo, scrivono, materia e significato. Siamo corpo-cervello-mente in relazione. Questo significa che il punto di partenza non è l’io ma l’intersoggettività, dunque la relazione.

Rifacendosi ai temi della complessità che mette in gioco la relazione come concetto fondamentale per comprendere un sistema e in particolare un sistema vivente e collegandosi alla teoria dei neuroni-specchio, gli autori attaccano la centralità del soggetto e dell’Io e affermano che: «Così come a lungo noi umani abbiamo ritenuto che al centro del sistema solare ci fosse la Terra e che il Sole le girasse intorno; allo stesso modo siamo stati a lungo convinti, e molti di noi lo sono tuttora, che il soggetto, l’Io, venga prima e sia al centro delle relazioni e dell’intersoggettività». D’altra parte la convinzione che l’Io sia al centro dell’universo è stata ed è tuttora così radicata in particolare nella cultura occidentale, che è tuttora valido il richiamo di Nietzsche alla zanzara: «Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo mondo».

Proviamo dunque a connetterci con la fastidiosa zanzara e forse scopriamo che, in fatto di concezione del mondo, non siamo poi così diversi. Per diventarlo dobbiamo immaginare e ammettere che in quanto umani siamo un noi in relazione e lo possiamo comprendere a partire da una visione biologica non riduzionista. Che cos’è, per esempio, una simulazione incarnata?

SENZA RINUNCIARE al materialismo e senza cadere nel riduzionismo biologistico, Gallese e Morelli ci spiegano come la percezione del dolore di un altro, assicurato dall’attivazione di neuroni, non si identifichi con il provare la sofferenza dell’altro, ma con il simularla. Ciò significa, per esempio, che, come già si era accorto nel XVIII secolo Adam Smith analizzando il concetto di simpatia (Teora dei sentimenti morali), la mamma che vede e sente piangere il suo bambino non può mai provare ciò che prova il suo pargolo e tuttavia percepisce turbandosi quel disagio e quella sofferenza. Il noi nella relazione non implica che gli esseri debbano fondersi o diventare identici perché l’uno senta e comprenda il dolore dell’altro, ciononostante la comunicazione e la connessione sono possibili e reali e noi siamo dotati biologicamente per renderle possibili e reali.

Non potendo dare conto di tutte le argomentazioni che Gallese e Morelli apportano alla domanda su casa significa essere umani, ci si limiterà a tre momenti: la cooperazione, il fare finta e l’intorno. Gli autori fanno riferimento agli studi di Michael Tomasello e dei ricercatori del suo gruppo, i quali studiando i cuccioli di scimpanzé e i piccoli umani, hanno rilevato che i secondi sono più precoci nell’atteggiamento relazionale e cooperativo. In sostanza hanno riconfermato sul piano del comportamento infantile la teoria dell’uomo come animale sociale in quella chiave cooperativa che Marx aveva sottolineato ne Il capitale: la cooperazione che, pianificata con altri, sviluppa la facoltà della specie umana. Se dunque la facoltà cooperativa si attiva prestissimo negli umani, cioè nel periodo infantile, essa si sviluppa nell’età adulta come un noi che sa immaginare e progettare il futuro.

E POI IL FARE FINTA. Il gioco come un’attività simbolico-sociale fondata sulla finzione come pratica di verità che produce ciò che ho chiamato mondi intermedi e a cui gli autori si rifanno. «Facciamo finta che»: il fare finta comporta il fingere che in origine significa immaginare, formare, figurare, produrre, creare. Noi occidentali abbiamo perso il futuro. Per riacquisirlo è necessario rifarsi alla cooperazione, che confligge con la competition e con quella visione individualistica che non tollera alternative, e al gioco, che propone invece di continuo mondi possibili e alternativi da costruire insieme.

E infine, l’intorno. Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito ha scritto che il mondo non ci sta davanti, ma intorno. «C’è empatia nella nostra relazione con lo spazio, scrivono Gallese e Morelli, e non è una scelta. Introiettiamo lo spazio e l’ambiente come condizione stessa della nostra vita, non solo respirando, bevendo, mangiando ma, in particolare, soddisfacendo la nostra ricerca di significato, in quanto… siamo la specie che dispone di comportamento simbolico e si distingue per le sue caratteristiche di produttrice di senso». Ma tutto ciò in un gioco di vincoli e di possibilità, in una dialettica di relazione e di autonomia, in una danza di contesti e di significati.

Quando Winnicott ci dice che la madre dà al bambino l’illusione dell’autonomia lasciandolo tentare di prendere un oggetto, non scompare, si ritrae e sta lì a guardare senza intervenire. Ma sta lì. Il bambino sa della sua presenza. Egli si rende autonomo ma all’interno della relazione con la madre. Avevo immaginato che il bambino percepisse la madre con la coda dell’occhio. È in questo senso che vincoli e possibilità, relazione e autonomia, contesto e significato entrano cooperativamente e simbioticamente in un conflitto che fa evolvere l’io del bambino e l’io della madre in un noi creativo. Ed è questa stessa, credo, la direzione verso cui viaggiano Gallese e Morelli.

MA ALLORA che cosa significa essere umani? Essere un noi che sa guardare il futuro, un insieme in cui corpo, cervello, mente stanno in relazione fra loro ma anche in relazione con altri corpi, cervelli, menti, un tutto dove natura e cultura si integrano a vicenda. Si tratta di rifiutare i vecchi dualismi io-mondo, cultura-natura, mente-corpo non per negarne la differenza, ma per sottolineare la relazione creatrice che lega queste entità che si intrecciano senza contrapporsi. «A furia di dualismi, concludono Gallese e Morelli, siamo stati costretti a sottostare a una specie di superordine celando con rivestimenti ornamentali e rabberciamenti le lacune sempre più evidenti che ci spaccavano in due, con la nostra connivenza pur di tenere in piedi false rassicurazioni».

Il libro rappresenta un generoso e appassionato richiamo alla complessità e una brillante alternativa di metodo a quelle semplificazioni, denunciate da Primo Levi ne I sommersi e i salvati, che stanno dominando la comunicazione dividendo il mondo in due e che, come accade in tempo di guerra, stanno distruggendo ogni dialogo riducendolo allo scontro amico-nemico.

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