L’abbattimento di 175.000 tacchini ordinato in questi giorni negli allevamenti intensivi in Polonia è l’ennesimo tentativo di arginare i 300 focolai scoppiati nel paese da febbraio per il diffondersi dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai), per cui – nonostante la difficoltà a reperire dati certi – si stima siano già stati uccisi circa 20 milioni di avicoli destinati alla produzione di carne e uova.

IL VIRUS, RINTRACCIATO GIA’ DA MAGGIO del 2020 in alcune specie di uccelli selvatici tra Russia occidentale e Kazakistan, zone interessate dal passaggio migratorio, aveva destato l’allerta dell’Unione Europea, ma, nonostante l’adozione delle misure previste, l’ondata non è stata scongiurata. Con circa 22 milioni di capi positivi in 28 Stati, l’infezione, che ha colpito severamente anche altri Paesi, come Germania e Svezia, (in Italia sono stati riscontrati 102 casi da gennaio, secondo i dati divulgati dal referente europeo Izsve, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie) è stata definita dall’Efsa nel suo report come «una delle più estese e devastanti epidemie di Hpai mai avvenuta in Europa».

LA CONTAGIOSITA’ DELL’INFLUENZA aviaria, di cui si conoscono 16 diversi genotipi, è portata da virus influenzali di tipo A che, sebbene attecchiscano molto più facilmente sui volatili, spesso con conseguenze gravi, incluso il decesso, sono in grado di mutare e adattarsi, trasmettendosi anche nei mammiferi e negli umani. Il salto di specie è avvenuto in questi giorni in un uomo di 41 anni della provincia cinese dello Jiangsu, che il 28 maggio è stato diagnosticato come il primo caso di positività al ceppo H10N3.

SEBBENE IL QUADRO CLINICO non sia preoccupante, il caso ha destato l’allarme delle autorità sanitarie, comprensibilmente, vista la pandemia da Covid 19 non ancora risolta. E se da una parte l’Oms ha rassicurato riguardo all’apparente scarsa capacità del virus di diffondersi tra umani, catalogando il rischio di infezione come molto basso, come già nel dicembre del 2020 – quando due lavoratori dell’industria del pollame erano risultati positivi al ceppo A(H5N8) in Russia – ha espresso la necessità di monitorare la situazione, ricordando, con le parole del dottor Richard Pebody, capo del team europeo che si occupa di virus ad alta patogenicità, come «la salute animale e umana siano interconnesse e dipendenti l’una dall’altra».

IL PASSAGGIO TRA SELVATICI E DOMESTICI è avvenuto rapidamente soprattutto nei luoghi in cui gli animali sono più a stretto contatto, come gli allevamenti intensivi di oche per la produzione di foie gras nel Sud della Francia, o in Polonia, che con 1600 impianti che ospitano fino a 50 mila capi ciascuno è il principale esportatore di pollame in Europa. I veterinari governativi polacchi hanno da subito chiesto alle autorità di fare in modo che venga garantito più spazio tra gli avicoli come misura di sicurezza, ma a portare attenzione sulla gravità del quadro è stata Greenpeace, denunciando ancora una volta, a livello internazionale e locale, come le condizioni malsane degli allevamenti intensivi siano l’ambiente ideale per la zoonosi. «Se non riduciamo il numero degli animali allevati negli impianti, possiamo mettere in campo tutte le soluzioni tecnologiche che vogliamo, ma non saranno sufficienti», spiega Federica Ferrario, della Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

«IL MODELLO DI ALLEVAMENTO industriale è uno dei principali driver di distruzione di biodiversità, deforestazione e cambio d’uso del suolo, che, da un lato richiede sempre nuove monocolture per la produzione di mangimi e dall’altro, andando a posizionare le proprie strutture sempre più a ridosso delle aree ad alta biodiversità, ovviamente aumenta il rischio di trasmissione e di spillover. E’ un concetto che la scienza espone da tempo, ma che tendiamo ancora non prendere in adeguata considerazione».

GREENPEACE HA DA POCO LANCIATO la campagna di raccolta firme Fermiamo l’industria dei virus, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul nesso fra epidemie e gestione degli animali, da cui provengono il 70% delle malattie infettive emergenti, come sars, ebola, influenza suina e aviaria e fare pressione sui governi perché avvenga un cambio radicale nella produzione della carne. L’associazione ha messo in luce l’insostenibilità degli allevamenti intensivi, responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra (il 14%, cui si somma il 24% dall’agricoltura industriale per coltivare mangimi, al quale scopo è utilizzato il 60% delle terre comunitarie) e produttori di grandi quantità di liquami e di inquinamento da polveri sottili, che alcuni studi hanno correlato al peggioramento delle condizioni in caso di Covid19.

COME STA MOSTRANDO ANCHE la diffusione dell’avaria in corso, gli animali ammassati negli allevamenti, che in molti paesi sconfinano nelle aree selvatiche, possono facilmente veicolare nuovi patogeni anche a causa della fragilità del loro sistema immunitario, messo a dura prova da condizioni di vita non naturali e affidato a grandi quantità di medicamenti.

NONOSTANTE TUTTO QUESTO secondo Greenpeace le discussioni sulla nuova Pac, con la quale si continua a destinare una fetta prioritaria di finanziamenti a un sistema legato alla produzione intensiva di carne, non lasciano ancora intravedere quel cambio di rotta necessario per una vera transizione ecologica. L’organizzazione chiede invece che i fondi pubblici siano destinati a politiche che permettano l’abbattimento del 70% del consumo di carne e latticini entro il 2030; alla tracciabilità delle filiere con etichette trasparenti e a sostenere allevamenti che rispettino la fertilità del suolo, la riduzione di gas serra e il benessere animale come condizione necessaria per poter vivere in un pianeta sano.