In piazza contro il ministro ungherese
Fermiamolo Parafrasando Ennio Flaiano, la situazione è tragica ed insieme seria. Il ministro degli interni – mentre scriviamo la denuncia delle sue prevaricazioni arriva al Tribunale dei ministri – non è […]
Fermiamolo Parafrasando Ennio Flaiano, la situazione è tragica ed insieme seria. Il ministro degli interni – mentre scriviamo la denuncia delle sue prevaricazioni arriva al Tribunale dei ministri – non è […]
Parafrasando Ennio Flaiano, la situazione è tragica ed insieme seria. Il ministro degli interni – mentre scriviamo la denuncia delle sue prevaricazioni arriva al Tribunale dei ministri – non è il rappresentante di governo della repubblica italiana che ha giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza. No, Matteo Salvini è un ministro degli interni «ungherese» e si affida alle decisioni che prenderà con il premier di Budapest Viktor Orbán – così ha ammesso nell’intervista al Corriere della sera di venerdì – nel vertice che terrà con il premier magiaro martedì prossimo. Per il quale i 5S si sono affrettati ieri a chiarire che di «incontro politico e non istituzionale si tratta». Un po’ goffamente, visto che nello stesso giorno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontrerà a Roma il premier ceco Andrej Babic, piazzista di sistemi di controllo di confini e migranti.
Il fatto è che non un politico qualsiasi ma il ministro degli interni della repubblica è schierato con la linea di Orbán: non si limita infatti a diffondere odio, facendo credere che gli italiani siano assediati dai migranti, nella fattispecie dai 150 sequestrati sulla Diciotti e in condizioni sempre più disperate, impediti finora nel loro diritto internazionalmente riconosciuto a chiedere asilo, su una nave militare italiana che non può attraccare in un porto italiano – ci sarebbe davvero da augurarsi una indignazione morale degli uomini e delle donne in divisa.
Salvini di più insiste a strumentalizzare l’occasione per confermare la sua assoluta contrarietà all’Unione europea, proprio come i Paesi di Visegrad, introducendo di fatto l’Italia in quella compagine iper-nazionalista guidata Orbán: che non vuole un solo migrante, è contro lo stato di diritto, reprime la libertà di stampa e penalizza le Ong. Tragico e serio è il fatto che non sia solo, troppo spesso rincorso dal clone istituzionale Di Maio e dal presidente fantasma del Consiglio Giuseppe Conte che, ogni dove, si associano. Al punto da esternare l’intenzione di uscire dall’Ue: che altro è se non questo la minaccia, di memoria balcanica, di non contribuire al bilancio comunitario?
Restando alla fine più isolati di prima sulla redistribuzione dell’accoglienza. Ma la battaglia dentro l’Unione europea era ed è contro nuovi muri e fili spinati, contro l’esclusiva fortezza Europa e la sua logica solo monetaria, contro la lontananza dai temi del welfare e del lavoro. Invece con Salvini, Di Maio e Conte viene perfino minacciata l’uscita dall’Unione, verso un orizzonte sovranista di patrie identitarie.
In pochi mesi lo svelamento del contratto giustizialista-populista è completo, come la sua sintesi «culturale»: il consociativismo corporativo. Prevede la fidelizzazione degli italiani che «vengono prima» – con accorta strategia di annunci e sottofondo di applausi petroliniani da regime (la differenza con gli anni Venti è la cloaca digitale di Facebook) – tutti contrapposti ai «nemici» migranti; fin dalle spese di bilancio. Presentando così le risorse per l’accoglienza – inferiori ormai a quelle per la repressione delle migrazioni — in contrappozizione a quelle del reddito di cittadinanza, del welfare, dei terremotati, dei disabili, della ricostruzione del Ponte Morandi, dei «poveri», della sanità e dell’istruzione. Una manovra sporca e menzognera.
Perché i numeri dicono il contrario. I migranti arrivati in Italia e che hanno trovato lavoro contribuiscono al nostro reddito, a cominciare dal pagamento delle pensioni; e versano sangue raccogliendo il nostro rosso pomodoro; i nuovi arrivi sono crollati in un anno, dalle poco più di 80mila persone a meno 20mila. Ma grazie ai lager in Libia e tacendo che sono aumentati di più del 20% i morti nelle fosse comuni del Mediterraneo, e che si cancellano le vittime che ogni giorno perdono la vita nel tragitto selvaggio del Continente africano; mentre almeno 700mila persone secondo l’Onu vagano disperate dal conflitto in Libia del 2011 che l’Occidente ha voluto. Salvini, ignorante sul conflitto decennale nel Corno d’Africa, dichiara che in Eritrea «resta la pace», sancita invece sulla carta solo pochi mesi fa dopo le devastazioni che restano, con una dittatura feroce. Continua la farsa dell’«aiutiamoli a casa loro», quando invece dovremmo smetterla una buona volta di «aiutarli»: perché il nostro rapporto con l’Africa è di rapina delle risorse naturali, di sottomissione del loro commercio, di cattura delle loro finanze e monete, di devastazione ambientale e di libero mercato di armi per le guerre in corso.
Non contenti, dopo le missioni del nuovo governo, sulla scia di Renzi e Minniti, dalle inesistenti ma criminali «autorità libiche», il misfatto che si vuole consumare è l’avvio di un sistema concentrazionario di campi di concentramento in Africa e in Paesi non ancora nell’Ue. Ecco la «disponibilità» dell’Albania, proprio da dove negli anni Novanta arrivavano i primi profughi in fuga dalla guerra civile, ad accettare quella che sarebbe di fatto una deportazione fuori dall’Europa, senza diritto a chiedere l’asilo. Magari con coinvolgimento dell’Onu, insidiato dalle macerie provocate dal militarismo «umanitario» delle troppe guerre seminate non solo in Medio Oriente. Una prospettiva, per Africa e Balcani, che nega la costruzione di società democratiche e apre a istituzioni-lager condizionate ai fondi occidentali.
È tempo di dire basta, di manifestare queste verità. La differenza tra la democrazia e lo stato di diritto da una parte e e il populismo identitario-giustizialista dall’altra sta nelle sorti di quella nave Diciotti ancorata alla disperata nel porto di Catania, e di tutte le «navi Diciotti» precedenti e dei nuovi sequestri di persona e respingimenti che l’«ungherese» Salvini prepara. È tempo di ritessere il filo di una tela strappata, quello di una sinistra solidale e anti-nazionalista. Non basta più attaccarsi ad un ramo di Fico. È non solo necessario ma obbligo morale scendere in piazza subito in Italia, laboratorio di pratiche scellerate di governo, con una grande iniziativa unitaria a Roma ora, a settembre, contro le politiche del governo sui migranti – come ha scritto Norma Rangeri venerdì scorso. Per una forte rappresentazione del malessere diffuso e della rabbia che cresce (cominciano ad essere tante e importanti, come ieri a Catania, le proteste, i presidii, le voci, dai vescovi siciliani, ai sindacati, agli organismi umanitari. Per fare questo vale la pena appellarsi ormai a chi a sinistra, di fronte al disastro renziano, ha votato per il M5S. Per chiedere se non sia l’ora di risvegliare la proprio coscienza. Pena l’indifferenza complice. E noi, con Gramsci, odiamo gli indifferenti.
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