Pur essendo una rassegna di dimensioni limitate, la mostra Africa. Le collezioni dimenticate, visitabile alle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino fino al 25 febbraio 2024, ha in sé una importante valenza culturale che parte da un duplice assunto: da un lato recuperare, preservare e identificare documenti e manufatti negletti o addirittura dimenticati, giacenti nei depositi piemontesi; dall’altro, inserire tali materiali nel contesto della storia italiana – e più ampiamente europea – della colonizzazione del continente africano. L’encomiabile iniziativa – la mostra è curata da Elena De Filippis della Direzione regionale dei Musei piemontesi, Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali e Cecilia Pennaccini antropologa all’Università di Torino e direttrice del Museo di antropologia ed etnografia – prende in esame il periodo che va dal Congresso di Berlino del 1884-85, e dalla spartizione dell’Africa che vi fu decisa, sino alla Seconda guerra mondiale e alla smobilitazione degli imperi coloniali che ne seguì.

DAL PUNTO DI VISTA museologico, risvegliare oggetti dormienti e risignificarli equivale a ridare loro voce, consegnandoli alla coscienza nazionale. Dal punto di vista storico, recuperare narrazioni di viaggiatori che per ragioni varie di professione, lavoro o curiosità percorsero regioni dell’Africa precoloniale o coloniale ha consentito di perlustrare depositi e archivi sabaudi poco o nulla frequentati ed estrarne delle storie che arricchiscono il patrimonio già noto. Va detto appunto che Africa. Le collezioni dimenticate espone anche manufatti già studiati e catalogati, prestati dal Museo di Palazzo Madama a Torino e dal Museo delle civiltà a Roma, ma in entrambi i casi frutto di spedizioni africane di piemontesi o di persone che comunque avevano donato i reperti a depositi piemontesi. Altri manufatti in mostra sono omaggi di sovrani e dignitari africani a re sabaudi o a figure di spicco dell’epoca; altri ancora costituiscono prede di guerra catturate durante le campagne e le battaglie africane dell’esercito italiano, e appartengono in gran parte all’Armeria dei Musei Reali di Torino.

Questa mostra ha dunque permesso di identificare e riunire una gamma di materiali disseminati in luoghi diversi, ma tutti appartenenti alla storia del colonialismo italiano in Africa nel periodo che si è detto, e caratterizzati da iniziative per lo più piemontesi o addirittura sabaude, come nel caso del Villaggio Duca degli Abruzzi ad Afgoi, in Somalia, o dell’ascensione del monte Rwenzori (nell’attuale Rwanda) da parte del medesimo Duca degli Abruzzi. Infatti, la natura del colonialismo implica lo sfruttamento e l’esproprio di luoghi, territori e persone. L’insediamento di un’azienda agricola, come pure la scalata di una cima ancora inviolata da parte d’una spedizione nazionale celebrativa, implicano una presa di possesso, materiale oppure metaforica, che qui si incorniciava entro un contesto culturalmente coloniale. Per ragioni analoghe, le curatrici hanno riletto le campagne di scavo archeologico in Libia mettendone in luce il senso profondo, in quanto il dimostrare l’importanza della presenza romana nel territorio dell’odierna Cirenaica serviva esplicitamente a raccontare l’occupazione coloniale come ritorno in un possedimento antico già marchiato da segni di civiltà romana esaltata nella prospettiva di moderni sogni imperiali.

TUTTO CIÒ RIENTRA nel discorso oggi centrale e urgente di una necessaria decolonizzazione dei musei che l’attuale mostra torinese costruisce attraverso la rilettura di album fotografici dimenticati in polverosi depositi, e l’attenta e perspicace risignificazione dei manufatti dispersi in sedi diverse che qui si ricompongono lungo il filo di una storia unica, quella della colonizzazione di Eritrea, Libia e Somalia, e dei molteplici tentativi falliti di colonizzare l’Etiopia cristiana e ferocemente indipendente.

IN MOSTRA compaiono anche pregevoli manufatti – dalle collezioni di Palazzo Madama – che i tre ingegneri italiani Pietro Antonio Gariazzo, Carlo Sesti e Tiziano Veggia e il «giovane meccanico» Stefano Ravotti portarono dal Congo belga dove si erano recati a lavorare per la Compagnie du Chemins de Fer du Congo; e una collezione di armi provenienti dall’attuale Sudan – e conservate presso l’Armeria del Musei Reali di Torino – portate in Italia dall’esploratore Antoine Brun-Rollet, cittadino di Saint-Jean de Maurienne, nella Savoia allora cuore del regno sabaudo.

Questi reperti, ognuno a suo modo, parlano di storie coloniali particolarmente violente le cui atrocità furono documentate già nell’Ottocento: basti pensare al rapporto del console britannico Roger Casement del 1904, steso dopo una lunga, accurata perlustrazione del bacino del fiume Congo. Fu appunto il rapporto Casement a scuotere il mondo di allora con le sue descrizioni raccapriccianti, e a condurre alla trasformazione del territorio affidato personalmente a re Leopoldo in colonia belga, al fine di controllarne in qualche modo la situazione. Ed è appropriato che in mostra si citi, in questo contesto, l’assassinio del giovane e brillante leader congolese Patrice Lumumba nel 1961, estremo esito postcoloniale volto a perpetuare il sistema di brutale sfruttamento economico instaurato dagli europei.

QUESTA SOTTILE e perspicace operazione culturale corrisponde alle aspettative di quanti hanno studiato la colonizzazione globale messa in atto dalle potenze europee lungo secoli che hanno visto, prima, razzie, spoliazioni e deportazioni sistematiche di persone e cose, e poi, in un secondo e ultimo atto, l’asservimento coloniale cui talora seguiva un insediamento di popolazione europea, come tentarono invano di fare gli italiani nella loro Africa. Gli studi postcoloniali e, quindi, la prospettiva critica della decolonialità hanno permesso di chiarire molti aspetti del passato e di liberare la storia dalle matasse di menzogne che consentivano una pretesa di missione civilizzatrice, come pure dagli orpelli funesti che mascheravano la violenza sistematica imposta sull’altro in modo da silenziarlo. L’iniziativa torinese giunge quindi benvenuta, come un passo avanti lungo il cammino dell’indagine culturale sulle vicende di cui parlano gli artefatti convocati a Palazzo Chiablese.