In morte di un larice millenario
Arbor Maxima La notizia luttuosa è di pochi giorni fa: in Valle d’Aosta è caduto l’albero più annoso.Torno a visitare i suoi boschi ma prima passo a salutare il castagno tetrasecolare di La Salle
Arbor Maxima La notizia luttuosa è di pochi giorni fa: in Valle d’Aosta è caduto l’albero più annoso.Torno a visitare i suoi boschi ma prima passo a salutare il castagno tetrasecolare di La Salle
Ci ho girato intorno. Alla fine accade sempre qualcosa che mi ferma, che mi impedisce di avvicinarmi a quel punto di mondo dove so che radicava l’albero considerato il più annoso fra i monumentali della Valle d’Aosta. La notizia della sua caduta, pochi giorni fa, è circolata in internet. Anche una foto: il tronco rovesciato, in una posizione completamente diversa da quella solita, che avevo ammirato di persona, anni prima, visitandolo.
GLI ALBERI CHE CADONO PERDONO LA LUCE, quella sacra e spirituale morbidezza che si distende intorno a loro; come se gli alberi dalle lunghe radici dovessero dipingere il paradiso che abitano durante la vita, o ci dovessero esteticamente vezzeggiare, proteggere, rassicurare. Sembrano mormorare: venite qui ai miei piedi, guardate che bello, guardate che penombra, che suadente tranquillità. I viandanti di un tempo solevano evitare di dormire ai piedi di certi alberi, perché temevano che i loro sogni venissero disturbati, o addirittura rapiti, dalla malignità che vi dimorava. Il tasso, ad esempio, era uno di questi, anche il suo nome popolare, albero della morte, era un fattore che poteva scoraggiare gli audaci.
AL COMUNE DI MORGEX, A POCHI CHILOMETRI da Courmayeur, si lascia l’auto in una frazione, Villair, e si risale dai 1200 ai 1900, puntando alla sommità dell’Alpe Licony. Ore di cammino, una giornata piena per le mie non acrobatiche abilità meccaniche. Ma prima voglio tornare a visitare il Tsahagnèr de Derby, un altro patriarca verde valdostano. Una stradina mi accompagna alle ultime case della frazione Derby, nel comune di La Salle, confinante con Morgex. Qui, un decennio dopo, saluto nuovamente il grande castagno, uno dei più longevi esemplari della sua specie nelle regioni di Nord-Ovest. Oltre quattrocento anni di età, al pari di alcuni castagni piemontesi e liguri.
LA SUA MOLE E’ PERO’ UNICA, PERCHE’ è un grosso bastone posato a terra dal passaggio di una tribù di giganti erranti. Scuro, si solleva al di sopra delle abitazioni all’ingresso di un bosco. Una macchia dritta, circondata da una palizzata e da altri alberi che si stanno prendendo spazio. Parcheggio accanto ad una fontana e mi avvio.
«Buongiorno o castagnaio di Derby, mio castanodònte valdostano», boffonchio, sorridendo.
La notizia della caduta del campione di Morgex lascia ora un seggio vacante. Potrebbe essere occupato, per così dire, dal tiglio di Sant’Orso che sorge nel sacrato dell’omonima chiesa, nel cuore del capoluogo, Aosta; si dice abbia quattro o cinquecento anni. Oppure da alcuni non sempre facilmente riconoscibili pini che crescono in diverse parti della regione, in terre alte, anzi, altissime, per i quali si mormorano, sottovoce, a fil d’erba, di età fra i tre e i quattro secoli.
Oppure altri larici nei territori del Gran Paradiso, con età di egual stima. Oppure questo castagno.
AI PIEDI DELL’ALBERO MONUMENTALE c’è la targa arancione posta dalla Regione, bilingue, italiano e francese. Nel 2009 esso misurava 764 cm di circonferenza del tronco a petto d’uomo ed un’altezza di 25,50 metri. Oggi, undici anni dopo, l’altezza è pressoché uguale, rametto più, rametto meno, mentre il tronco è cresciuto a 790 cm, misura che prendo con la solita circospezione. Le mani si adagiano sulla corteccia, affiora e spigola, in solchi profondi, scanalature irregolari. Mentre sono qui a respirarlo mi convinco che sia il superstite di un mondo scomparso, un mondo di uomini operosi, ossessionati dalla terra e dalla sua coltivazione, intimoriti da ogni cambio di stagione, chini a terra forse anche più di quanto pregassero, in dialetto, o magari ripetendo a memoria le litanie in latino. Il bosco che lo circonda è abbandonato, mantenuto più per dovere e per un vago sentimento di tutela della natura a pochi passi dall’umano, mentre allora, settanta, cento, duecento anni fa, tutto aveva importanza; poco di quel che capitava oltre i confini dei paesi, oltre le geometrie affettive ed emotive delle comunità, e di certo pochissimo di quel che poteva accadere oltre il confine della valle. influenzava la vita di queste persone.
SALUTO A MALINCUORE IL CASTAGNO e mi avvio a Morgex. Mi attendono ore di cammino ma oggi c’è qualcosa che mi molesta, in me si agita uno spirito contraddittorio. Così arrivo al bivio che porta alla stradina da seguire per risalire il monte, seguendo le indicazioni per la famosa Pianta monumentale che sta lassù, adagiata al fondoschiena di certe nuvole, fra i 1800 e i 1900 metri di altitudine. La mia panda rossa da battaglia imbocca la strada, audace ma anche convinto di violare un divieto che però nessun cartello segnala; la stradina si restringe, l’asfalto lascia spazio allo sterrato, le pietre battono contro qualcosa, la polvere si alza e si arriccia, l’automobile rischia di spezzarsi o di guastarsi ad ogni curva. Il mio cuore batte forte. Quasi arrivo in cima ma poi una buca troppo grande mi riporta alla concreta dimensione terrestre: la resa. Debbo retrocedere. E così torno alla curva precedente e mi fermo. Apro la portiera e mi guardo intorno. Il cielo rannuvola.
LA STRADA TRA LE FRONDE DELLE CONIFERE. E poi, mentre sono lì, col naso che scandaglia la cima che mi sovrasta, manca poco, sembrerebbe, seguendo la carrozzabile che però ora mi rendo conto potrebbe anche non condurre dove credo. Forse la buca dunque è un segnale positivo.
Le resine mi avvolgono, ogni tanto. E fissando quegli alberi contorti capisco cos’è che mi agguanta: la malinconia degli alberi che in passato ho visto dopo la loro estinzione. La scarsa ammirazione per tutti coloro che non li vogliono lasciare stare, dopo la fine, continuando a vessarne i cadaveri nei modi più curiosi e artistici. Ma d’altronde qui mi smentisco poiché a casa mia, nel mio piccolo, portatile ne-an buddista, o eremo delle radici, custodisco un Budda legnoso, una sezione circolare di una sequoia abbattuta a Merano nel 2015; circa 150 anni di vita imprigionata che saluto ogni mattina a inchini.
ERO RIMASTO MORTIFICATO, AD ESEMPIO, quando andai a documentare il cipresso del giardino di Palazzo Bossi a Orta San Giulio, sradicato dopo due secoli, a pochi passi dalle acque placide del lago. O quando il calocedro «innamorato» del parco di Villa Genero, a Torino, era scomparso a causa di un fortunale violento. Così come mi sono sentito completamente impotente alle immagini della perdita dell’abete Avez del Prinzipe che svettava a Malga Laghetto, su, nei dintorni di Lavarone, il più alto degli alberi autoctoni dell’Italia alpina. L’elenco, dopo tutti questi anni da cercatore di alberi secolari, sarebbe purtroppo ampio.
MI CHIEDO: VUOI DAVVERO PIANGERE nuove lacrime alla base di un caduto in questa guerra senza fine? Probabilmente no. Mentre penso a tutto questo mi guardo intorno. Quanto sono splendide le conifere arroccate nelle parti alte delle montagne, quelle che da qui vedo sbuffare in cima ai monti, piccoli, appena uno schizzo di colore, come se fossero opera di un pittore cinese. E quanto materiche e invitanti sono le cortecce dei pini e dei larici che crescono qui vicino, ce n’è uno oltre il canalone, coi rami che dalla cima ricascano abbondanti lungo il tronco, una piccola foresta in miniatura. O quella serie di alberi lassù, cento o duecento metri da dove sono, che sfidano i venti da decenni, barbuti, sfrontati. Amo questo ambiente, le boscosità sommitali delle montagne, identificano il punto più emotivo di un continente tutto mio, fra realtà e immaginazione, dove vorrei venire ogni mattina a meditare, dove ritorno spesso per ammirare, per allenare la fantasia e nutrire spirito e, se capita, la scrittura.
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