In Lucania petrolio e vita grama
Reportage Viaggio a Corleto Perticara, dove l’impianto petrolifero Gorgoglione Tempa Rossa è stato fermato per mancato monitoraggio ambientale. C’è chi muore di inquinamento e chi si ammala di desolazione
Reportage Viaggio a Corleto Perticara, dove l’impianto petrolifero Gorgoglione Tempa Rossa è stato fermato per mancato monitoraggio ambientale. C’è chi muore di inquinamento e chi si ammala di desolazione
Il cartello stradale indica la via che porta ad Aliano, il paese del confino e della sepoltura di Carlo Levi. La strada entra in un canyon di argilla e ginestre. Una chiesa abbandonata sulla destra, un borgo disabitato sulla sinistra. Il paesaggio si addolcisce tra colline d’ulivo e piccoli corsi d’acqua. Un oleodotto attraversa il Sauro, e in fondo alla pianura, su in cima alla collina, ecco Corleto Perticara.
E’ QUASI L’ORA DI PRANZO e le poche persone in piazza parlano del più e del meno. Gruppetti di anziani sulle panchine, quarantenni con la birra Peroni davanti al bar. E’ la Piazzetta del Risorgimento Lucano, e di fronte, oltre il fiume, a mille metri di altezza, svetta il Centro Oli Tempa Rossa. Un fitto reticolo di tubature, serbatoi giganteschi e una torcia alta 130 metri. E’ l’impianto di prima raffinazione del giacimento Gorgoglione Tempa Rossa.
Scoperto nel 1989, oggi è per il 50% della Total, e la parte restante è suddivisa in parti uguali tra l’inglese Shell e la giapponese Mitsui. Ha una profondità di 5 chilometri e si stima una capienza di 480 milioni di barili di petrolio. Cinque dei sei pozzi attivi si trovano nel comune di Corleto, il sesto è nel territorio di Gorgoglione. A settembre, durante i test che precedono l’entrata in produzione vera e propria, la Regione Basilicata ha bloccato tutto. Total non avrebbe rispettato alcuni obblighi di monitoraggio ambientale.
«Da quando hanno fermato tutto ce ne vorremmo andare», dice Giovanna. Ha 35 anni e gestisce un ristorante insieme al marito Antonello, poco prima della piazza. Tra i pochi clienti ci sono Francesco e Domenico, sulla cinquantina. Il primo lavora negli uffici della Total, il secondo ha lavorato per poco nell’impianto: «Adesso ci mettiamo in piazza e contiamo le macchine che scendono». Antonio Lacava ha dei terreni e una casetta a poche centinaia di metri dal pozzo Tempa Rossa 1. L’acqua che utilizzava per innaffiare e far bere gli animali è contaminata, il tubo che pesca l’acqua del pozzo è sporco di catrame. Un signore distinto, 80 anni circa, dice di conoscere l’indirizzo del signor Antonio. Non vuole farsi intervistare e chiede di restare anonimo: «Ho lavorato nell’amministrazione comunale negli anni in cui tutto cominciò. Non voglio contraddirmi. Due miei fratelli sono morti di tumore, a me il petrolio non piace».
I BAR STANNO CHIUDENDO, c’è il pranzo della domenica, sono rimasti solo pochi ragazzi. Francesco ha l’aria impaziente di chi aspetta qualcuno, 25 anni e la sigaretta in bocca. E’ disoccupato e molto deluso: «L’80% dei lavoratori viene da fuori, soprattutto siciliani e rumeni. Ho lavorato nel Centro Oli per tre anni, poi basta. Noi e i paesi qui intorno siamo messi male».
La piazza è ormai vuota, c’è solo un cane bianco e nero che si aggira scodinzolando. Molti bar, un minimarket, il negozio di tabacchi, il distributore di benzina e il Palazzo degli Uffici, sede del municipio e del museo comunale. Due falchi sorvolano il campanile arabeggiante, le locandine di uno spettacolo teatrale raffigurano il volto di Rocco Scotellaro, poeta contadino. C’è odore di agnello arrostito, e dalle casupole della parte vecchia arrivano le voci della tv e il rumore delle posate. Duemilacinquecento abitanti e un intreccio di stradine di pietra che si arrampicano verso la montagna e, dall’altro lato, si fermano sul ciglio del pendio che scende nell’alveo del torrente.
«PIU’ MALE CHE BENE, LE COSE vanno male»: baffoni grigi, capelli brizzolati e occhi chiari, il signor Antonio Lacava ha 69 anni e tanto da raccontare. «Mi hanno operato a febbraio dell’anno scorso per un tumore all’intestino. Sono stato molto male». Durante le perforazioni di Tempa Rossa 1 gli animali morivano all’improvviso: organi spappolati e gravi malformazioni alla nascita. «La mia azienda è tutt’intorno al pozzo di petrolio, e le pecore hanno probabilmente bevuto acqua contaminata». Con l’aiuto di Giorgio Santoriello, attivista di Cova Contro, ha fatto analizzare acqua, carne e formaggio. Le analisi hanno riscontrato la presenza di idrocarburi e metalli pesanti. «Il Comune, la Regione, sono assenti», dice Antonio.
Maria Antonietta Lacava è sua figlia. Ha 45 anni, un marito e due figli. «Qui vince l’omertà. Di cosa hanno paura, del posto di lavoro? Oggi lavori e domani non lo sai. Danno solo il contentino per tenere calma la situazione. Tutti giocano sul posto di lavoro, soprattutto prima delle elezioni. Il futuro, quale futuro? Siamo dei morti che camminano». Continua Antonio: «Prima a Corleto si viveva soltanto di agricoltura e allevamento, tutti lavoravano. Certo, la vita era dura, il lavoro di campagna è duro, però si viveva»
IL RISTORANTE DI GIOVANNA E ANTONELLO è quasi vuoto, due clienti stanno pranzando. Giovanna serve in sala e affianca il fratello dietro al bancone. E’ divertita quando mostra un volantino di protesta, anonimo, arrivato tramite posta. Recita il foglio: «Total non è una divinità, è una società come tante, che oltre a prendersi il vostro territorio, si prenderà i vostri valori, il vostro orgoglio». Antonello è molto sicuro di sé, ha 39 anni e un viso da bravo ragazzo. «A 19 anni, quando ho conosciuto mia moglie, lavoravo in un supermercato. C’era la possibilità di entrare nell’indotto del petrolio, ma arrivavo sempre secondo. Bisogna avere quell’aiutino». Ventitré anni lui e venti lei, si trasferiscono a Londra. «Mia moglie lavorava in un ristorante a 500 euro al mese, e io ho trovato lavoro come lavapiatti». A 28 anni frequenta a Parma la scuola di Gualtiero Marchesi, e dopo diverse esperienze in alcune regioni del nord Italia, il ritorno in Basilicata. Nel 2013 l’inaugurazione del ristorante: «Abbiamo avviato quest’attività anche per il petrolio. Se arrivano 500, 600 persone in più, com’è successo per il Centro Oli, tu lavori lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, tutta la settimana. Bisogna essere realisti, è un treno importante, ma è necessario investire le risorse pensando al futuro».
I DUE CLIENTI PRENDONO IL CAFFE’ al banco, pagano, ringraziano, «arrivederci», «a presto». Giovanna porta via i piatti sporchi, il fratello esce ad accendersi una sigaretta. «Io ho paura dei pozzi fatti negli anni 90. Lì sotto c’è un fiume, quand’eravamo piccoli andavamo a farci il bagno, adesso non ci andrei più», continua Antonello. Vorrebbe dei figli, e vuole restare nel suo paese, «però se hai voglia di crescere vie di uscita non ne trovi. Non c’è turismo, non c’è niente. C’è solo il petrolio, ma il petrolio non è infinito».
La grande piattaforma di cemento del pozzo Tempa Rossa 1 guarda la piccola casetta del signor Lacava dall’alto. E’ sufficiente percorrere una salitella di erba e terra, e in non più di cento metri dal pozzo idrico di Antonio si arriva a quello di estrazione della Total.
C’è una grande vasca di raccolta per le acque di strato, estratte insieme al greggio. Vengono separate dal petrolio e reiniettate nel sottosuolo. «Quando piove l’acqua esce dalla vasca e scende giù nei terreni di mio padre». La condotta sottoterra che parte da Tempa Rossa 1 e arriva al Centro Oli passa a pochi metri dal pozzo di Antonio Lacava. «Qui c’era la vigna», continua Maria Antonietta, «tutto seccato. Gli alberi da frutta, tutti secchi. Mio fratello voleva continuare l’attività di mio padre, ma non è possibile. Ci hanno tagliato le gambe, è una colonizzazione». Antonio riempie un secchio d’acqua nel pozzo, ne tira fuori un liquido color ruggine.
LA LINEA D’ASFALTO CHE PORTA alla campagna dei Lacava fiancheggia molti poderi abbandonati. Un signore che coltiva l’orto sulla riva della «Fiumarella» dice che il petrolio non c’entra. «Le case sono abbandonate perché la gente è partita, o perché non vuole più lavorare in campagna. Chi si lamenta lo fa per avere più soldi».
Il sole va abbassandosi dietro le montagne, i cani e i pastori guidano le pecore alle stalle. Le ruspe e i camion si fermano, le macchine cariche di operai si avviano verso il paese, e in contrada Serra Dievolo ritorna il silenzio. Le reti color arancio delimitano i terreni contaminati, in alcuni punti sono sbiancate dal tempo e, intorno, coltivazioni di fave.
NEL 2010 I CARABINIERI DEL NOE hanno sequestrato il sito, oggi non più sottoposto a sequestro. Negli anni 90 Total Mineraria, poi assorbita da Eni, ha smaltito in quei terreni i fanghi di perforazione del pozzo Tempa Rossa 2. Subentrata ad Eni nella titolarità della concessione, Total Italia nega ogni responsabilità e legami giuridici con Total Mineraria. I terreni non sono stati ancora bonificati. «Total, pur non essendone responsabile, si farà carico delle bonifiche», afferma il sindaco Antonio Massari.
Rocco Toce aveva un’azienda faunistica di tipo C, dove si cacciava la selvaggina e si addestravano i cani da caccia. Circa 90 ettari di colline e alberi. Da una parte le Dolomiti Lucane, dall’altra il Centro Oli e il pozzo Tempa Demma. «Nel 2012 la mia azienda era al top. Facevamo gare cinofile di rilievo nazionale. Arrivavano clienti anche da altre regioni italiane». I primi problemi arrivano con la ripresa dei lavori a Tempa Rossa, alla fine del 2012. «Hanno abbassato di 20 metri la montagna, immagina quello che può succedere su una stradina di campagna quando ogni giorno, per 5 volte al giorno, passano più di 100 camion».
I CLIENTI NON RIUSCIVANO PIU’a raggiungere l’azienda e Rocco ha dovuto chiudere. Ci sono ancora le gabbie per le lepri e le voliere per i fagiani, tutto fatiscente: «A volte mi sale la rabbia, e vorrei bruciare tutto. Ho 3 figli, c’erano progetti per un agriturismo, tutto finito».
Tra la fattoria dei coniugi Lombardi e Tempa Rossa c’è solo uno stradone fatto costruire dai gestori dell’impianto. Con l’esproprio dei terreni la zona di pascolo è diminuita. Le mucche sono ammassate nella stalla, c’è un forte odore di letame. Duecento ovini sono stati trasferiti a valle, «i macellai non vogliono più i nostri animali, dicono che è tutto inquinato», afferma Luigi. Al di là della strada, a ridosso del Centro Oli, c’è un’altra fattoria: «Loro hanno avuto dalla Total 300 euro per ogni capo di bestiame, che poi hanno dovuto vendere. Dicono che noi invece siamo in una posizione non a rischio». La moglie, Filomena, trasporta una trave di legno che mette giù per salutare. Ha un tumore allo stomaco, ma sta meglio. Ci sono venti pecore che pascolano vicino l’asfalto: «Quelli del petrolio si arrabbiano quando trovano gli animali sulla strada. Ma dove devono andare?». Le pecore attraversano e vanno a pascolare nel canalone, dove arrivano gli scarichi.
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