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«In Italia almeno tredici varianti del virus, occorre una banca dati»

«In Italia almeno tredici varianti del virus, occorre una banca dati»Il prof. Massimo Ciccozzi

Intervista Parla il prof. Massimo Ciccozzi, tra i primi a identificare il salto di specie del Coronavirus dal pipistrello all'uomo

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 30 dicembre 2020

Lo chiamano l’«uomo delle mutazioni», il prof. Massimo Ciccozzi, perché, con l’Unità di statistica medica ed epidemiologia che dirige nel Campus Bio-medico di Roma, è stato tra i primi al mondo a identificare lo «spillover», ossia il salto di specie – l’unico finora certificato – che dal pipistrello ha portato il Coronavirus responsabile della Covid-19 a infettare l’uomo.

Prof. Ciccozzi, secondo il prof. Arnaldo Caruso che l’ha scoperta a Brescia, la variante italiana del Sars-Cov-2 potrebbe essere precedente a quella inglese e presente nel nostro Paese già dall’estate scorsa. Ma cosa vuol dire esattamente?

Filogeneticmente la variante inglese – classificata come B.1.1.7 – sembra un sottolignaggio di quella italiana – identificata come B.1.1 -, ma discutere di quale delle due sia precedente secondo me non ha molto senso. Più che altro si tratta di questione temporale riguardante la scoperta.

Anche perché le mutazioni del virus si trovano se le si cercano, giusto?

Esattamente. Nel mio caso, da febbraio ho pubblicato già una trentina di lavori sulle mutazioni di questo virus. Ma è una scoperta dell’acqua calda: il virus muta per sua natura, si evolve adattandosi all’ospite, al suo sistema immunitario. Il vantaggio lo trae dalla contagiosità, raramente dalla letalità: il virus cerca di fare sempre meno male al corpo nel quale vive da parassita, perché se l’ospite muore il virus è destinato all’estinzione. Nell’ultimo lavoro, pubblicato quindici giorni fa su MedrXiv, abbiamo dimostrato che ci sono almeno 13 varianti che attualmente girano in Italia.

Ma quale impatto hanno queste mutazioni nello sviluppo dell’epidemia?

Riguardo la letalità non c’è alcuna conseguenza, ma per la contagiosità qualche differenza c’è. A febbraio per esempio abbiamo scoperto una mutazione – chiamata DG 614 – che ha reso il virus molto più contagioso. E che poi abbiamo ritrovato nel 98% di tutte le sequenze del genoma depositate in Italia, cioè ottenute studiando il virus nei pazienti Covid positivi italiani. Oltre a quella mutazione, in Italia ce ne sono almeno altre tredici.

In Gran Bretagna, ma anche in altri Paesi, esistono banche dati nazionali delle sequenze. In Italia no. È perché c’è poca attività di questo tipo?

No, purtroppo da noi ogni centro, ogni regione, ogni gruppo fa sequenze del genoma per conto proprio e tutti sembrano gelosi del proprio “tesoretto”, chissà perché.

Sarebbe utile condividere gli sviluppi dell’attività di sequenziamento?

Assolutamente sì. Se si costituisse un Consorzio per mappare tutte le varianti virali circolanti sul territorio italiano, si potrebbe evitare di cercare alla rinfusa. Il prof. Caruso ha trovato quella variante italiana perché ha voluto approfondire la patologia virale di un paziente oncologico positivo al Covid ma asintomatico. E dalla sequenza che lui ha ottenuto, io ho individuato le mutazioni del Sars-Cov-2. Ma se fosse stato uno studio sistematico, magari avremmo potuto trovarne qualcuno in più.

Le cure e i vaccini che sono in distribuzione o in via di approvazione, possono essere messi a rischio da queste varianti fin qui trovate nel mondo?

No, non queste che vediamo oggi. Però è evidente che di queste mutazioni dobbiamo andare a caccia per evitare brutte sorprese. Tant’è che io ho già l’appuntamento per vaccinarmi: il 4 gennaio.

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