In gioco l’egemonia in Medio oriente
Scenari Calcoli sbagliati e il ripetersi di errori del passato, hanno devastato la Siria, sviluppando circostanze che non fanno prevedere soluzioni veloce e soddisfacente
Scenari Calcoli sbagliati e il ripetersi di errori del passato, hanno devastato la Siria, sviluppando circostanze che non fanno prevedere soluzioni veloce e soddisfacente
Da quando le cose hanno iniziato ad andare male in Siria dopo le «primavere arabe», nel 2011, la situazione è precipitata in un buco nero.
Sbagliati i calcoli degli attori politici in campo, fra i quali Turchia, Stati uniti, Iran, Russia, Arabia saudita, così come quelli dei vari gruppi estremisti associati ad al-Qaeda e in seguito al cosiddetto Stato islamico, e della galassia dei gruppi armati antigovernativi.
NESSUN CONFLITTO internazionale è mai stato tanto opaco, sfaccettato e condizionato dal gioco contraddittorio di forze politiche nazionali, regionali e globali.
Calcoli di fondo sbagliati e il ripetersi di errori del passato da parte delle forze contendenti, hanno portato alla devastazione della Siria, con sofferenze pesantissime, moltissimi morti e la fuga di milioni di persone, sviluppando circostanze che non fanno prevedere una soluzione veloce e soddisfacente.
Il primo calcolo sbagliato, da parte soprattutto di Turchia e Stati uniti, è stato pensare che l’intervento militare avrebbe prodotto rapidamente l’auspicato cambio di regime a Damasco.
Il secondo che la Siria fosse come la Libia e potesse essere rovesciata dalla violenza dei gruppi armati con l’assistenza diplomatica e finanziaria dall’esterno.
Errori di valutazione che avevano trascurato la capacità da parte di Iran e Russia di fronteggiare gli interventi armati anti-Assad e sottostimato sia il sostegno interno al governo di Damasco sia l’efficacia dell’esercito siriano.
NEGLI ANNI DI CAOS, la guerra per il controllo dello Stato siriano si è intrecciata con altre preoccupazioni politiche, in particolare la lotta, guidata dagli Stati uniti, contro l’Isis e gli sforzi curdi finalizzati all’obiettivo dell’autodeterminazione, incoraggiati dalla fluidità della situazione politica in Siria e ispirati dal successo dei curdi iracheni arrivati in pratica, nel Nord dell’Iraq, a uno status di indipendenza.
Il piano curdo, in collaborazione con le forze statunitensi ufficialmente in campo contro l’Isis, era aiutare i curdi siriani sotto la leadership militare delle Ypg (Unità di protezione popolare) che, secondo analisti obiettivi, avevano stretti legami, materiali e ideologici, con il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) impegnato per oltre venti anni nella lotta armata contro la Turchia per creare un Kurdistan indipendente o un’entità politica a guida curda all’interno delle frontiere turche. In questo complicatissimo contesto, quel che emerge è ancora più oscuro.
Due fattori esterni vanno considerati. In primo luogo, come al solito la diplomazia di Trump ha mandato in modo irresponsabile segnali più che confusi a tutte le parti interessate. Ankara ha interpretato l’improvviso ritiro delle forze Usa come un segnale di via libera, seguito dalle minacce da parte del presidente statunitense di distruggere l’economia turca e poi da sanzioni interpretabili come un segnale rosso, oppure come un semplice tentativo interno di calmare i repubblicani e le loro aspre critiche di aver abbandonato le Ypg, alleate nella lotta contro il terrorismo. I curdi siriani hanno visto nella mossa di Trump la fine del sogno di autodeterminazione e la prospettiva di una catastrofe militare e umanitaria; non tutti i curdi, sembra, perché migliaia di loro hanno passato la frontiera andandosi ad aggiungere a 3,5-4 milioni di rifugiati già presenti in Turchia.
Il secondo fattore di origine esterna da tener presente è la campagna internazionale contro il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, la quale bolla l’incursione turca come «pulizia etnica» – o peggio-, sostenendo che la Turchia, una disgrazia per la Nato, ne dovrebbe essere espulsa, e che la diplomazia statunitense ha di nuovo abbandonato cinicamente i curdi una volta che non sono più stati utili.
QUESTI SENTIMENTI ANTI-TURCHI non sono tutti sbagliati, ma certo vengono usati per obiettivi non legati all’attacco. La campagna è portata avanti da un gruppo di forze turche comprendenti curdi espatriati, kemalisti e seguaci del movimento di Fetullah Gülen, che nel 2016 inscenò il tentativo di colpo di Stato, producendo quella che in Turchia veniva vista come indifferenza, da parte di Washington, Europa occidentale e Israele, per la sopravvivenza di un governo democraticamente eletto.
Sui siti decisamente filo-israeliani come il Middle East Forum che veicola le posizioni dell’estremista sionista Daniel Pipes e del Gatestone Institute, legato a figure di estrema destra come Alan Dershowitz e John Bolton, passa un flusso continuo di editoriali e commenti rabbiosi che mirano a delegittimare la Turchia in ogni modo. La veemente denuncia degli abusi dei diritti umani compiuti dal regime di Ankara, però, si accompagna al silenzio nei confronti degli atti dell’Egitto e dell’Arabia saudita. Non occorre un master per capire che è in gioco l’egemonia in Medioriente in collaborazione con Israele.
Abbastanza a sorpresa, il New York Times ha pubblicato un editoriale del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavusoglu, il quale ha spiegato lo scopo dell’operazione militare e le intenzioni turche: la Turchia mira a una «zona cuscinetto» alle proprie frontiere, e non ad attaccare il popolo curdo. Çavusoglu sostiene che l’obiettivo del suo governo è limitato a liberare dalla presenza delle Ypg e dell’Isis una fascia di 20 miglia, permettendo ai rifugiati siriani in Turchia che volessero tornare in patria di insediarsi nella fascia stessa.
Un obiettivo secondario sarebbe il ripristino della sovranità siriana sul suo stesso territorio, che secondo la Turchia sarebbe stata messa in pericolo dalla speranza di uno staterello nel Rojava, nord-est della Siria. Çavusoglu ha respinto come propaganda maliziosa l’affermazione che le forze turche e i loro alleati abbiano intenzione di liberare i combattenti dell’Isis detenuti dai curdi, mentre in realtà l’Isis ha spesso preso di mira obiettivi turchi.
ALL’INTERNO DELLA TURCHIA, anche fra chi si oppone decisamente a Erdogan e all’Akp si registra un consenso all’operazione militare, purché si limiti agli obiettivi dell’antiterrorismo. La diplomazia di Trump, insieme all’alleanza dell’Akp con la destra anti-curda dal 2014, spiega perché i curdi, anche quelli che non approvano le tattiche o l’affiliazione alle Ypg, siano timorosi di quanto sta avvenendo, soprattutto dopo che Trump ha tolto il terreno da sotto i piedi, dicendo in modo insolente che i curdi non sono alleati e la loro protezione non rientra nell’interesse nazionale.
Il riallineamento dei curdi con Damasco non è né stupido né sorprendente. Allo stato attuale è impossibile dire se questo cambiamento nelle alleanze e nelle aspettative delle Ypg sia un espediente tattico o un’effettiva, importante svolta. Occorre sospendere il giudizio ed evitare interventi che provocherebbero una escalation negli obiettivi e nell’intensità del conflitto, cercare il negoziato, e ovviamente essere coscienti degli aspetti umanitari. Sarebbe di aiuto anche allontanarsi dagli estremisti anti-turchi il cui obiettivo primario è il cambio di regime in Turchia, mediante la delegittimazione dello Stato turco e l’incoraggiamento alle minacce trumpiane di distruggere l’economia di uno Stato sovrano che ha il diritto, come ogni altro Stato, di perseguire la propria sicurezza nazionale.
*Professore emerito a Princeton ed ex rapporteur Onu per la Palestina
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