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In Giamaica marijuana no problem?

In Giamaica marijuana no problem?Kingston, un militare giamaicano davanti a un murale dedicato a bob marley

Storie I turisti a volte pensano che in Giamaica il consumo di «ganja» sia legale. Si sbagliano di grosso. Dalle persecuzioni della comunità rasta in poi, al riguardo la legge qui è particolarmente severa. E la polizia è spesso brutale con i ragazzi arrestati per uno «spliff». L’ultima vittima si chiama Mario Deane e la sua morte in cella, avvenuta proprio mentre si comincia a parlare di depenalizzazione, sta diventando un caso internazionale

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 25 settembre 2014
Flavio BacchettaMONTEGO BAY

Pochi sanno che la legislazione giamaicana, anche riguardo il consumo personale di ganja (termine indiano per definire la marijuana, adottato dai locali) è particolarmente severa. Alcuni se ne accorgono a loro spese, solo una volta messo piede nell’isola. Tratti in inganno dalla retorica di Jamaica no problem e dalle proposte che spingono verso l’agognata sostanza, i turisti spesso ritengono erroneamente legale l’uso della cannabis. In realtà, anche per un solo spliff («spinello») vige l’arresto immediato, con annessa detenzione negli orridi lock-up, le celle dei posti di polizia, fino al giorno del processo, che in genere avviene per direttissima entro una settimana e infligge al malcapitato pene pecuniarie di modesta entità. A meno che un amico del posto non voglia intercedere, e prestarsi come garante per la cauzione (bail).
Va decisamente peggio ai giamaicani colti in flagrante.

Una lunga storia di persecuzioni

La comunità dei Rastafari, per i quali il consumo dell’erba costituisce un rituale sacro, che li avvicina a Jah (Dio), fu oggetto di persecuzioni fin dalla proclamazione dell’Indipendenza, avvenuta il 6 agosto del 1962. Nell’aprile del 1963, un piccolo gruppo di dread locks, vezzeggiativo per rasta, incendiò una stazione di servizio come ritorsione a una confisca di terreni da parte delle autorità. La polizia uccise due degli uomini, ma nei giorni successivi, il Primo ministro di allora, oggi celebrato come eroe nazionale, Sir Alexander Bustamante, forse accanito fan dei western modello OK. Corral, ordinò senza mezzi termini: «Portatemi tutti i rasta, vivi o morti». In realtà, lo «Sceriffo» non si fece sfuggire occasione di normalizzare una comunità ribelle, che infastidiva i benpensanti con le sue continue rivendicazioni di autonomia, e l’uso indiscriminato della famigerata ganja.

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Le uccisioni che seguirono, rinverdirono i massacri che avevano già colpito nel 1954 il ghetto di Pinnacle, il cui leader, Leonard Howell, si era messo contro il governo e aveva guidato la sua gente sulle colline prospicenti Kingston, avviando coltivazioni di mais, cassava e ovviamente marijuana. A detta degli anziani, Howell fu il primo, durante la Seconda Guerra Mondiale, ad aver usato l’erba sacra ai Rasta, anche a scopo terapeutico, spedendone carichi al fronte inglese, dove combattevano anche molti giamaicani, per alleviare le sofferenze dei feriti. Vero o no, sta di fatto che in tempo di pace questa pratica non poteva essere più tollerata. Pinnacle fu rasa al suolo. Centinaia di case furono date alle fiamme e decine di persone uccise o ferite. Metodo-Generale Custer, per rimanere nell’ambito western.

Dopo oltre un secolo di persecuzioni, il ministro della Giustizia Mark Golding ha proposto nel giugno scorso la depenalizzazione dell’uso di marijuana per scopi terapeutici, e la legalizzazione della modica quantità, che dovrebbe venir fissata a due once (57 grammi).

La proposta di modifica di legge sta incontrando in parlamento resistenze da parte del partito di opposizione, JLP (Jamaican Labour Party) che, pur non contrario per principio alla legalizzazione dell’uso in modiche dosi, chiede che sia istituito un referendum che lasci la decisione agli elettori; così facendo, l’approvazione della modifica di legge slitterebbe al 2015, prima data utile per un referendum popolare. Nel frattempo, la polizia continua a compiere arresti e sequestrare raccolti.

Un altro omicidio giudiziario

Che poi, chissà perché, trovano comunque la via dell’export, di cui l’isola è primatista mondiale. Mantenendo la sua reputazione di violenza, che la pone al top della classifica di omicidi giudiziari nel continente americano, (300 circa, la media annua) la JCF (Jamaican Constabulary Force) ha messo bene in chiaro la sua posizione nei confronti di questo tentativo di riforma, con un’altra azione delle sue.

Il 3 agosto, un giovane muratore di 31 anni, Mario Deane, viene avvicinato da due agenti mentre fuma uno spinello, a Barnett Street, nella città di Montego Bay. Trascinato via con violenza, e rinchiuso nel lock-up della vicina stazione di polizia, gli è stato negato anche il diritto di cauzione.

Le percosse sono continuate in cella, perché il ragazzo, incensurato, non si rassegnava alla detenzione. Era stato messo dentro insieme a altri due detenuti, affetti da turbe mentali. Secondo la versione degli agenti di guardia, i due avrebbero infierito su Deane dopo un litigio; sta di fatto che Mario è morto per i colpi ricevuti.

Arriva Indecom

Questa versione non ha convinto però Terrence Williams, capo di Indecom, l’agenzia governativa che indaga sugli omicidi giudiziari, le cui inchieste hanno scosso i vertici della JCF, provocando le dimissioni del capo della polizia Ellington, accusato di connivenza con le squadre della morte, che hanno insanguinato l’isola negli ultimi anni.

In particolare stanno emergendo in questi giorni, delle similitudini tra l’omicidio Deane e altri casi clamorosi di cittadini morti a causa delle percosse ricevute in cella; quello di Michael Gayle, nel 1999, e il più recente, Kamoza Clarke, nell’ottobre del 2013, entrambi picchiati a morte. In ambo i casi, la polizia accusò gli altri reclusi, risultati estranei ai fatti; le prove-video inchiodarono poi gli agenti di custodia, anche se nessuno fu condannato in via definitiva.

Il funerale di Mario Deane (foto reuters)
Il funerale di Mario Deane (foto reuters)

Il caso sta avendo ripercussioni internazionali così forti da provocare l’arrivo sull’isola del noto patologo americano Michael Baden, atterrato a Montego Bay il primo settembre. Dalla sua autopsia sono state confermate le cause della morte, dovuta a una pioggia di pugni e calci che hanno prima spezzato le ossa del volto. Il ragazzo è stato poi finito per soffocamento.
A riprova che il pestaggio sia stato orchestrato dalla polizia, lo testimoniano i segni delle manette sui polsi; talmente profondi, da indurre la conclusione che queste non siano mai state tolte dal momento del suo arresto.

Mario comunque è morto. Morto per una canna, destino beffardo, proprio mentre la prospettiva di legalizzare l’uso della sostanza, sembra essere prossima. Parole. E la polizia quaggiù ama attenersi ai fatti. Soprattutto quando sono fattacci.

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