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In fuga dal disordine globale

In fuga dal disordine globale

Due documenti pur così lontani fra loro come l’enciclica papale sull’ambiente e il rapporto sulla demografia in Italia dell’Istat dicono di più sulla questione dell’immigrazione nella Penisola e in Europa […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 19 giugno 2015

Due documenti pur così lontani fra loro come l’enciclica papale sull’ambiente e il rapporto sulla demografia in Italia dell’Istat dicono di più sulla questione dell’immigrazione nella Penisola e in Europa di tutte le dichiarazioni dei nostri uomini politici. Se, come dice papa Francesco, le crisi che colpiscono il mondo risalgono a un ordine globale che alimenta le ineguaglianze a senso unico – dei ricchi a danno dei poveri, del Nord a scapito del Sud («Spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi») – anche le guerre che infuriano tutt’attorno al Mediterraneo non possono essere considerate cause primarie dell’inarrestabile ondata migratoria.

Ma solo effetti di una stessa gestione iniqua delle risorse, materiali come la terra e il cibo o immateriali come la scuola e il potere, che a catena provocano il travaso di tanti disperati sulle nostre coste. D’altra parte, l’inarrestabile declino demografico in Italia, con l’aumento improprio della fascia più vecchia della popolazione, e quindi di non-produttori a basso consumo di merci e ad alto bisogno di servizi costosi, fa paradossalmente dell’immigrazione non un pericolo da cui difendersi con tutti i mezzi bensì un’occasione da non perdere nell’interesse collettivo.
Nessuno è così cieco da non vedere quali e quanti sconquassi provochi l’irruzione di migliaia di profughi provenienti tutti insieme da paesi con un diverso colore della pelle, una diversa religione, una diversa predisposizione alle regole fondamentali della vita sociale. A loro volta, però, questi strappi sono la conseguenza di una società d’accoglienza che è intimamente diseguale e scarica sui più deboli gli inconvenienti peggiori. Tutti gli studi di tipo sociologico sull’emigrazione in Europa provano che sono i ceti medio-alti a trarre più vantaggio dall’immigrazione, usufruendo di una manodopera a costi decrescenti per l’industria, le campagne e l’economia di cura, mentre gli strati con un reddito inferiore, per lo più da lavoro dipendente, sono costretti a condividere gli stessi spazi, per lo più degradati, con gli ultimi venuti e a subire l’inesorabile calo dei salari.

Anche in Sud Africa furono i poveri bianchi a difendere finché possibile l’apartheid quando la grande industria e i poteri forti (compresi l’esercito e i servizi di sicurezza) avevano capito fin troppo bene che il razzismo istituzionalizzato non era più né difendibile né conveniente. Era solo grazie alla discriminazione dei neri se i gradini bassi o bassissimi della società europea avevano la possibilità di lucrare su una ancorché residuale rendita di posizione. Nadine Gordimer era un bersaglio facile dei razzisti poveri che le rinfacciavano di discettare contro il razzismo nei suoi scritti e nelle sue prediche in giro per il mondo perché viveva in un quartiere residenziale dove i neri comparivano solo come autisti e domestici.

Sia il Medio Oriente che l’Africa sono in piena transizione. Le crisi che al mondo esterno appaiono minacce a cui reagire con guerre devastanti di cui non si capisce bene né il fine né la fine – il complesso di onnipotenza produce quest’ultima aberrazione, sperimentata anche durante la guerra fredda e divenuta la regola dall’Operazione Restore Hope in Somalia in poi – sono lo scotto pagato dai popoli, dalle nazioni e dagli stati in loco a trasformazioni dirette non solo dall’alto ma anche dall’esterno. I paesi in via di sviluppo sono stati inseriti nel mercato capitalista, attraverso il colonialismo, in una posizione di inferiorità e continuano a subire una dipendenza che li penalizza. I regimi autocratici, quando possibile, sono stati rovesciati senza aprire la strada a progetti alternativi. Magari non ci sarà più la borghesia compradora teorizzata da Samir Amin ma le classi dirigenti della Periferia non hanno oggettivamente nessuna autonomia reale. Gli stessi militari che negli anni Cinquanta e Sessanta si presentavano come un’alternativa riformatrice o addirittura rivoluzionaria sono ormai inglobati nell’establishment, veri padroni dello stato e dell’economia. Fattah al-Sisi non potrà mai diventare un Nasser anche se provoca Obama flirtando con Putin e comperando armi niente meno che in Francia. Già Nasser – al culmine e quindi al crepuscolo – dovette riconoscere che la rivoluzione degli «ufficiali liberi» invece di promuovere le mitiche masse aveva beneficiato una borghesia avida e sfruttatrice. Il clima è sempre quello di una guerra, a un livello variabile di intensità, contro il cambiamento e in difesa dei privilegi. La frase con cui De Klerk annunciò in Sud Africa la legalizzazione dei partiti anti-razzisti e la liberazione dei prigionieri politici non lasciava dubbi sul senso di quel passaggio cruciale: «La guerra è finita» (la guerra dello stato contro il suo popolo).

Dove più e dove meno, la crisi nel Sud globale culmina nella sparizione dei confini che sembravano essere l’ultimo requisito dello stato. È vero per il Medio Oriente, per il Corno d’Africa, per la grande area saharo-saheliana. La guerra della Francia nel Fezzan e nel Mali non ha una collocazione geografica precisa. La guerra di e contro Boko Haram è ormai straripata fuori della Nigeria. Il Ciad di Idriss Déby, già candidato a far parte di una lista di stati paria, è l’alleato principale di Hollande in Africa e spazia con le sue truppe in tutta la regione. Gli islamisti che si richiamano a Daesh si sono infiltrati in Libia lungo il confine invisibile fra i due poteri rivali di Tripoli e Tobruk con lo scopo di distruggere anche gli ultimi residui della nazione o dello stato. La frontiera fra Iraq e Siria non esiste più per nessuno. La guerra americana nel mondo arabo non è confinata al già indeterminato campo di battaglia in cui infuria Daesh e si estende ovunque siano individuabili potenziali “terroristi”. Isis riempie un vuoto di potere e di legittimità rievocando il califfato e cavalcando la confusa protesta di chi considera i governi e gli stessi stati come entità artificiose e oppressive. Non ci sono solo le intimidazioni e le violenze efferate nella strategia di al-Baghdadi o di chiunque capeggi l’autoproclamato stato islamico: c’è anche una governance che distribuisce pasti, istruzione e assistenza sanitaria com’è nella tradizione delle confraternite musulmane. In Siria la richiesta agli Stati Uniti per avere un’assistenza adeguata per varare una rete di un apparato giudiziario nelle aree sotto il controllo dei ribelli cosiddetti «moderati» non è stata nemmeno presa in considerazione. In compenso, ogni raid di droni o aerei americani dà lo spunto ai capi delle legioni con le bandiere nere per imputare le vittime – molti morti fra i civili per ogni bersaglio «militare» – alla guerra dell’Occidente contro l’islam.

Gli Stati Uniti gestiscono con i governi locali due «emergency rooms» in Turchia e in Giordania per coordinare alcuni movimenti che lottano contro il regime di Assad. Il governo americano non ha ancora deciso, e tanto meno detto agli alleati (fra cui l’Italia), se la guerra è intesa a rovesciare il regime del Baath o a puntellarlo. Di sicuro i governi dei paesi sunniti vogliono colpire anzitutto e soprattutto Assad e l’Iran suo alleato (che in Iraq combatte sul terreno contro Daesh). Mentre tutte le alleanze regionali sono in ebollizione spicca l’asse Arabia Saudita-Israele come monito perché Obama non porti a termine l’apertura a Teheran sabotando l’accordo sul nucleare.

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