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In Euripide Antigone era non-politica, ed Edipo non s’accecò da solo…

In Euripide Antigone era non-politica, ed Edipo non s’accecò da solo…Edipo accecato dai servi di Laio, dall’Edipo di Euripide. Illustrazione di una scena raffigurata su un’urna funeraria volterrana del II secolo a.C., Firenze, Museo Archeologico

Classici perduti Se al posto dei drammi sofoclei si fossero salvati quelli di Euripide, Astidamante o Ione di Chio, la tradizione occidentale avrebbe tutto un altro immaginario...

Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 agosto 2023

L’immagine che di Antigone si è consolidata nell’immaginario culturale, quella che ha dominato la lunga vicenda della sua ricezione, è fondata sul dramma omonimo che Sofocle portò in scena al teatro di Dioniso nel 442 a.C. Tutte le Antigoni successive fino ai nostri giorni, siano esse adattamenti o rielaborazioni o anche modelli ermeneutici – da Garnier ad Alfieri, da Anouilh a Brecht, da Hegel a Kierkegaard – si sono confrontante inevitabilmente con quell’antico modello. Quella di Sofocle è stata una rielaborazione potente del mito, nella quale il personaggio di Antigone, fino ad allora pressocché inesistente nella tradizione poetico-letteraria dei Greci (assente in Omero e nei frammenti dei poemi ciclici come anche in quelli lirici), assurge al ruolo di eroina protagonista e ribelle. Il drammaturgo di Colono produce una notevole innovazione costruendo l’intreccio drammatico attorno al focus del divieto di sepoltura di Polinice, sminuendo il ruolo di Ismene e facendo di Antigone una sostenitrice spavalda e inflessibile delle leggi sacre e non scritte che regolano il diritto funerario, in nome delle quali rivendica il dovere di seppellire il corpo del fratello caduto in guerra mentre combatteva contro la propria città.

Con tale ricodificazione della trama mitica vengono tematizzate nel dramma questioni cruciali del discorso pubblico ateniese dell’epoca: la degenerazione del potere in tirannide, il confitto tra legislazioni arcaiche di stampo sacrale e familistico e nuovi modelli giuridici, i conflitti generazionali e di genere etc. Spunti che hanno consentito nei secoli il proliferare di interpretazioni e rimaneggiamenti quanto mai vari, che hanno fatto di Antigone ora l’emblema del diritto naturale contrapposto alla legge codificata, ora della famiglia contro lo Stato, ora dei diritti della persona. E così via: l’elenco sarebbe lungo e non è questa la sede per trattarlo.

Ebbene, se l’Antigone che il mondo tardo antico e moderno ha conosciuto è quella di Sofocle, lo si deve alla circostanza che la tragedia del 442 si è fortunatamente conservata e tramandata imponendosi presto come opera paradigmatica (il finale interpolato dei Sette contro Tebe di Eschilo risente certamente del modello sofocleo). Ma se fosse andata perduta, quale Antigone sarebbe arrivata ai giorni nostri? Se, anziché il dramma di Sofocle, avessimo conservata l’Antigone di Euripide o quella di Astidamante II, vincitore alla Grandi Dionisie nel 341 a.C.? Le ragioni per cui un testo antico è andato smarrito o si è salvato sono spesso legate a circostanze fortuite, e il gioco di ricostruire quanto perduto, sulla base di sparuti lacerti della tradizione o tarde testimonianze di dubbio valore, da sempre affascina gli studiosi. Di certo, se avessimo perduto l’Antigone sofoclea, la cultura occidentale avrebbe rinunciato a un capolavoro assoluto e l’immagine dell’eroina sarebbe stata completamente differente, meno innovativa e più conforme alla tradizione.

Abbiamo perso l’Antigone di Ione di Chio, un ditirambo in cui le due sorelle Antigone e Ismene finivano bruciate nell’incendio del tempio di Era provocato da Laodamante, figlio di Eteocle. Lo sappiamo da una testimonianza del grammatico Salustio, ma ignoriamo per quale motivo le due fanciulle venissero punite in quel modo. Il fatto che la sorte di Antigone fosse qui associata a quella di Ismene cancella un tratto che Sofocle evidenzia al massimo, ovvero l’isolamento della protagonista, che agisce in totale solitudine.

Abbiamo perso, soprattutto, l’Antigone di Euripide che pure doveva essere una tragedia importante, capace di ispirare molte pitture vascolari. Composta verso la fine del V secolo, tra il 420 e il 409, l’Antigone euripidea era strutturata su una concezione del tutto diversa da quella di Sofocle. I frammenti superstiti e le testimonianze erudite d’età ellenistica (Aristofane di Bisanzio) ci inducono a immaginare che la tematica politica passasse del tutto in secondo piano. L’asse portante era l’amore tra Antigone ed Emone, un amore osteggiato dal sovrano Creonte, e il dramma si risolveva positivamente grazie all’intervento di un deus ex machina che metteva in salvo i due giovani pronosticando loro il matrimonio e la nascita di un figlio. Il mitografo Igino racconta una fabula (72) che contrasta decisamente con la vulgata sofoclea e potrebbe essere desunta proprio dall’Antigone di Euripide o forse da quella di Astidamante II. In tale variante Emone e Antigone, segretamente fidanzati, generano un figlio, ma la vicenda non finiva con un happy end: per sfuggire alla vendetta del padre Creonte, Emone prima uccide Antigone e poi sé stesso.

Un discorso simile si può fare per l’altra grande figura della stirpe labdacide, Edipo, padre e fratello di Antigone. Il suo mito è ben attestato anche prima della rielaborazione tragica, ma la codificazione che Sofocle ne ha dato nella tragedia Edipo re è quella che ha fatto scuola ed è passata attraverso i secoli fino a Freud e fino ad oggi. Quando si pensa a Edipo non si pensa solo al parricidio e all’incesto, ma anche al potente sovrano di Tebe che cade in rovina perdendo il potere, all’instancabile indagatore che si sforza di trovare una soluzione ai mali che affliggono la città, al «simbolo dell’intelligenza umana che non può fermarsi finché non ha risolto tutti gli enigmi», per dirla con Eric R. Dodds. Si è conservato il dramma di Sofocle che ben presto divenne un’opera esemplare, molto letta e citata. Quella tragedia ha veicolato nei secoli una precisa immagine di Edipo che Sofocle aveva costruito con indubbia maestria drammaturgica.

Ma il teatro greco del V e del IV secolo ha prodotto un gran numero di drammi ispirati alla figura di Edipo: si sono cimentati con quel soggetto drammaturghi minori quali Acheo, Nicomaco, Filocle, Senocle, Melezio II, Carcino, Teodette, Diogene di Sinope, e anche grandi nomi come Eschilo ed Euripide. Sono drammi perduti, di cui restano in qualche caso sparuti frammenti, sulla cui base è improbo azzardare ricostruzioni affidabili. Ma il quadro così frastagliato ci induce a riflettere sulla circostanza che quello sofocleo era solo uno dei possibili Edipo, e che la ricezione del mito sarebbe stata completamente diversa, se si fosse salvata la tragedia di un altro poeta. Eschilo, per esempio, aveva incastonato il suo Edipo in una tetralogia unitaria, andata in scena nel 467 a.C., nella quale la leggenda era rappresentata secondo la successione cronologica degli eventi (diversamente dall’Edipo re di Sofocle, che inizia dalla fine e propone una progressiva ricostruzione del passato). Il tema centrale era la colpa che si sconta di generazione e in generazione secondo una sequenza inesorabile, e il protagonista non si caratterizzava certamente quale eroe della conoscenza e della ricerca.

Qualcosa di più si può dire dell’Edipo di Euripide: in un frammento (541 Kannicht) si fa riferimento all’accecamento di Edipo compiuto dai servi di Laio, una clamorosa variante rispetto alla versione vulgata per cui Edipo, dopo la scoperta delle sue colpe, si toglieva la vista. Possiamo dedurre che in Euripide la scoperta del regicidio era anteriore alla scoperta del parricidio e ben distinta da essa: prima si scopriva Edipo uccisore del re Laio (e lo si puniva accecandolo), e poi si scopriva che era il figlio dello stesso Laio. Dopo quest’ultima rivelazione, Creonte cacciava Edipo in esilio lontano da Tebe, insieme con Giocasta (che non si uccideva). Al di là delle ipotesi ricostruttive, è chiaro che l’Edipo concepito da Euripide era un personaggio lontanissimo da quello sofocleo. Non sappiamo se l’accecamento per opera dei servi di Laio fosse un’innovazione recente o se riprendesse una vecchia tradizione. Di sicuro cambia radicalmente l’orizzonte di significato della vicenda drammatica cancellando il valore simbolico dell’autopunizione. Un Edipo cieco, ma contro la sua volontà, dunque, non divorato dal rimorso, ma vittima della rabbia altrui, privo di quell’ansia di indagare e accertare la verità che caratterizza l’Edipo di Sofocle. Un Edipo che probabilmente non sarebbe stato additato da Aristotele come dramma esemplare, e su cui Freud non avrebbe potuto costruire alcuna teoria psicoanalitica.

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