«In “Di Grazia” danze, canti e storie di braccianti agricole sfruttate»
Incontri Parlano il regista, coreografo e performer Alexandre Roccoli e l'attrice e cantante Roberta Lidia Di Stefano
Incontri Parlano il regista, coreografo e performer Alexandre Roccoli e l'attrice e cantante Roberta Lidia Di Stefano
Un corpo femminile si libera. Sprigiona storie, identità, traumi da abusi. È voce, canto, rito. Antico e modernissimo. Racconta un atavico connubio: violenza/ potere. Di Grazia (la voix du patron), in prima nazionale all’Arena del Sole di Bologna (13-25 febbraio) nell’ambito di «Focus lavoro, spettacoli e attività culturali legati al tema del lavoro», nasce dall’incontro tra Alexandre Roccoli, coreografo performer italo francese del Theatre du Soleil, attivo nella scena elettronica berlinese, la cui ricerca si basa su antichi gesti artigianali, e Roberta Lidia De Stefano, attrice e cantante calabrese diplomata alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, co fondatrice della compagnia de «Le Brugole». Li abbiamo intervistati prima del debutto
Alexandre, prosegue il suo percorso nelle tradizioni e nei riti popolari: perché questa ricerca?
Mia madre è della provincia di Noto, i nonni paterni sono calabresi. Io sono nato a Montceau Les Mines, in Borgogna. Mio padre iniziò a lavorare nelle miniere di carbone a 14 anni. Suonava la fisarmonica e il piano, questo l’ha salvato dalle pesantissime condizioni di lavoro che doveva sopportare. Trascorrevamo l’estate in Italia, nonne e zie cucivano vestiti per processioni e feste popolari, mi sono bagnato in quest’immaginario di riti ancestrali. Ho continuato a studiarli in chiave contemporanea, nella danza sciamanica, in rapporto alla musica techno, e alla salute mentale.
Come nasce «Di Grazia»?
È l’ultima puntata di una trilogia che scava nelle radici, attraverso figure femminili di resistenza. Ho studiato fenomeni come il Tarantismo, cercando di allontanarmi dal folklore: si è perso il valore curativo dei riti, si è sviluppata industria per me è molto problematica. Il tentativo è decostruire le categorie, soprattutto per quel che riguarda la performatività del genere, in chiave di lotta di classe. Con Roberta De Stefano, artista del sud e attivista, abbiamo costruito una partitura in diversi dialetti e canti che si facevano per “chiedere la grazia” di lavorare, vivere meglio, curarsi. La plasticità del suo corpo e della sua voce traduce i canti delle anziane. Non volevamo essere didattici ma liberare il nostro immaginario. Il mio è quello della techno, Roberta suona la zampogna che diventa la voce di Rosetta, figura resistente che porta con sé storie di donne abusate. Come una sciamana ricostruisce la memoria delle voci, del potere dire.
Roberta, questo lavoro che la vede come interprete e co autrice, ha una forte valenza politica
Già con Kassandra (regia Sergio Blanco con cui ha avuto la Menzione d’onore al Premio Eleonora Duse 2022, ndr) per me è iniziato un percorso autoriale, un affondo sui corpi delle donne e alla loro narrazione che ho continuato ad esplorare nell’incontro con Alexandre. Di Grazia nasce dal desiderio di raccontare delle realtà sommerse. All’inizio era solo movimento e canto, grazie alla co produzione di Ert abbiamo approfondito il lavoro e costruito una drammaturgia intorno alle storie delle braccianti agricole sfruttate nei campi. Questa tematica è intersezionale. Da sempre le donne subiscono l’abuso di potere, si tratta di qualcosa che riguarda tutte, in ogni ambito e settore. Noi artiste siamo le prime a subire abusi.
La performance cuce insieme storie e immaginari diversi, a cosa vi siete ispirati?
È una drammaturgia a strati. Abbiamo attinto da diverse fonti come l’Osservatorio Anti Tratta, o Oro Rosso, il libro di Stefania Prandi che racconta l’inferno dello sfruttamento e delle molestie sessuali che subiscono le braccianti in molti paesi del Mediterraneo, e le abbiamo traslate in un contesto più poetico. Rosetta è il nome della figlia della Ciociara di De Sica, ma c’è anche il riferimento alla Rosetta di Dardenne, simbolo della lotta contro il precariato, e alla Mouchette di Bresson. In scena riproduco i movimenti del lavoro, si spinge molto sulla ripetizione, il corpo diventa un campo di battaglia. Di Grazia non è altro che un tentativo di voler restituire la grazia e la voce a tutte queste donne che scompaiono nell’indifferenza. Ci sono pratiche che non si conoscono, come i festini agricoli dove i padroni sfruttano sessualmente le braccianti, un microcosmo di vite di cui non si parla mai. In scena c’è un piano smembrato con le corde a vista, una sorta di altare: un percorso di iniziazione della protagonista che è uscita dalla sua casa patriarcale nella speranza di approdare a un sistema diverso che purtroppo non troverà.
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