Riapriamo il dossier minimalismo. Strano dossier a pensarci bene. Si tratta di una corrente, non formalizzata – e certo è uno sbaglio o un eccesso di comodità formalizzare in correnti alcune opere che pure sembrano avere qualcosa in comune tra loro -, a cui i produttori di arti non vogliono appartenere, né in musica né in letteratura né in pittura/scultura/installazioni/ecc. né in ogni altra arte. «…nessuno vuol essere considerato minimalista», scriveva Fernanda Pivano nella postfazione del 1987 all’edizione Garzanti di una raccolta di racconti di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Carver per primo non voleva, naturalmente. Per quanto riguarda la musica e in particolare gli autori più noti di quel «movimento» (chissà se questo termine passerà incolume al vaglio di una critica giustamente refrattaria alle classificazioni), Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich, un importante musicologo militante, Enzo Restagno, proponeva di sostituire al termine minimalismo la dizione musica ripetitiva. E di ripetitività ce n’è sicuramente nelle opere di quei compositori. Prendiamo Terry Riley, forse il capostipite visto che il suo lavoro più noto e popolare, In C, risale al 1964. È fatto di 53 pattern, mica tutti vanno ripetuti uguali ma un nucleo-base rimane costante per tutta la durata (variabile, circa un’ora) del brano. Non ci sono sviluppi, solo interiezioni di suoni lunghi al susseguirsi di ostinati ritmici brevi. Se ne parla, qui, per il fatto che una versione per soli contrabbassi e con un titolo nuovo, In D, elaborata da Stefano Scodanibbio è ora pubblicata dall’etichetta Parco della Musica Records nella interpretazione dell’ensemble Ludus Gravis diretto da Daniele Roccato. Il grande compositore e contrabbassista Scodanibbio avviò nel 2009 consigliandosi con Roccato e poi con lo stesso Riley una trascrizione di In C che sarebbe diventata un’opera nuova. Giocata sull’uniformità timbrica e – se è possibile attribuire un carattere a un’«opera aperta» come questa – su un’accentuazione dell’ossessività. Sembra il trionfo della tonalità, cioè di una cosa assai discussa (a volte messa al bando dogmaticamente) dalle avanguardie del Novecento. Dal Do al Re… Ma qui c’è un flusso sonoro in cui si riconosce una tonalità che nega se stessa perché non si costituisce come centro. L’interpretazione della meravigliosa macchina da suoni Ludus Gravis aggiunge altri elementi: il live electronics e il contrabbasso percosso da Michele Rabbia, che si aggiunge ai 12 contrabbassisti. Clima che si fa di momento in momento più drammatico. Intensità persino spettacolare della ripetizione come continua scoperta.