In-civile: il lavoro rimosso delle donne
La prima norma a favore della maternità – in questo paese che si ubriaca per un Oscar e rimuove ogni problema reale perché troppo noioso – fu approvata nel giugno […]
La prima norma a favore della maternità – in questo paese che si ubriaca per un Oscar e rimuove ogni problema reale perché troppo noioso – fu approvata nel giugno […]
La prima norma a favore della maternità – in questo paese che si ubriaca per un Oscar e rimuove ogni problema reale perché troppo noioso – fu approvata nel giugno del 1902, quando si permise alle lavoratrici di restare a casa (ben) trenta giorni dopo il parto. Ovviamente, senza alcuna retribuzione. In aggiunta, le fabbriche con più di 50 operaie dovevano garantire la presenza di camere speciali per l’allattamento. Solo nel 1910 furono istituite le casse di maternità che però erogavano una sorta di assicurazione fissa, non legata al salario.
Poi arrivò il fascismo che abolì l’assicurazione e istituì il premio di nuzialità e di natalità, che non salvaguardava né la salute della madre né quella del bimbo/a.
Venendo alla storia repubblicana, bisogna ricordare le leggi 860 del 1950 e 1204 del 1971, nuove tutele per le lavoratrici madri.
Ma anche, e soprattutto, le norme del 2000 che sono state la conclusione di una accanita (e non più vista) battaglia delle donne in difesa dei propri diritti. Perché ne parliamo, qui, e oggi? Varie ragioni. Si tratta comunque di leggi che dovrebbero stabilire il grado di civiltà (o di in-civilità) di uno stato, oltretutto siamo alla vigilia dell’8 marzo e, tertium, se ne è a lungo parlato l’altro ieri durante la presentazione di una bella mostra cross-mediale «Noidonne cooperAttive», godibile fino al 12 marzo presso la Casa dell’Architettura di Roma (uno spazio delizioso, non ancora scoperto da Sorrentino), organizzata dalla storica rivista femminile, dalla Legacoop e dalla Fondazione Nilde Iotti.
I dati attuali sull’occupazione femminile italiana sono piuttosto raccapriccianti. Non solo, come ha ricordato Laura Linda Sabbadini dell’Istat, siamo agli ultimi posti nelle classifiche europee (si salva soltanto il mondo della cooperazione che, in controtendenza, impiega manodopera femminile per il 52%), ma siamo in fondo alle classifiche nell’uso del telelavoro, e impieghiamo al rovescio la potenzialità del part-time (perché a richiederlo sono le aziende, come mezzo di flessibilità e non le lavoratrici). Siamo in coda anche nelle statistiche della suddivisione dei lavori di cura, famiglia e casa, tra maschi e femmine. Le donne italiane dedicano al lavoro di cura in media diverse ore giornaliere in più dei loro partners ma il paese sembra non accorgersene.
Guardando appunto alle politiche si sostegno, si vede come l’aggiunta dell’astensione facoltativa di entrambi i genitori per un periodo (frazionato o continuativo) di sei mesi ciascuno fino agli 8 anni del figlio/a, abbia sì alzato la tutela ma tuttoggi si hanno difficoltà sia a reperire i dati di applicazione sia ad avere informazioni precise. Come ha fatto notare l’altro giorno l’ex ministra Livia Turco che, della proposta di iniziativa popolare, fu tra le promotrici, «è mancata e manca una politica di informazione, non sono state fatte campagne di comunicazione su tutte le possibilità che la legge consente».
Campagne informative peraltro previste appositamente dall’articolo 2 della legge.
Va anche ricordato che la 53/2000 permette, con l’articolo 4, di usufruire di 3 giorni di permesso retribuito l’anno per decesso o «documentata grave infermità» del coniuge, del convivente o di un parente fino al secondo grado. E ancora, all’articolo 9 introduce le famose politiche di «conciliazione tra famiglia e lavoro» in base al quale vengono sostenuti finanziariamente i progetti delle aziende che, tramite strumenti differenti (part-time, telelavoro, orario flessibile), si sforzano di aiutare l’occupazione femminile.
Sono strumenti forse da migliorare, ma certo ha ragione Turco quando pretende che, per cominciare, siano applicati.
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