Cultura

In cammino per aprire i sensi

In cammino per aprire i sensiCaspar David Friedrich, «Il viandante sul mare di nebbia», 1818

Intervista Un incontro con Davide Sapienza, in occasione del suo «Il Geopoeta. Avventure nelle terre della percezione», pubblicato per Bolis. «Il bosco è una lezione di vita: il suo spirito, la sua economia naturale, la sua bellezza, le interconnessioni tra le diverse essenze, tutto mi parla di equilibrio»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 3 aprile 2019

Ci sono opere destinate a occupare uno spazio tutto loro. All’interno del percorso più o meno denso o rarefatto di un autore, per quanto l’impegno, la dedizione, la volontà, siano ogni volta gli stessi, emergono alcuni figli di carta a cui si finisce per attribuire un valore e peso specifico del tutto speciali. Spunta nell’autore il sospetto e a seguire prende corpo la consapevolezza che quel libro, quell’opera, sia la summa di tutto un percorso, l’opera che attendeva e che abbraccia tutte le altre. Il lombardo Davide Sapienza, in un primo tempo del proprio compiersi, è stato un attivo interprete della scena musicale, appassionato promoter, curatore, traduttore, critico. Poi ha scoperto la montagna, ne ha subito il richiamo, anche fisico, tanto che ha abbandonato la città per andare a vivere ai piedi della Presolana.

Da questo nuovo tempo ha iniziato a muovere i primi passi come autore di cose altre, di appunti, di percorsi, di scritture. Ne sono sbocciate pubblicazioni quali La musica della neve (Ediciclo), La strada era l’acqua (Lubrina), I diari di Rubha Hunish (pubblicato prima da Baldini & Castoldi, poi da Feltrinelli Zoom Wide, ora da Lubrina), La vera storia di Gottardo Archi (Bolis) e L’uomo del Moschel (Bolis). Dopo anni di travagliate elaborazioni, arriva nelle librerie Il Geopoeta. Avventure nelle terre della percezione, terza opera per i tipi di Bolis.
«Il Geopoeta sviluppa un’idea universale: tutti interpretiamo la geografia intorno a noi – spiega Sapienza -. Volevo mettere in primo piano il legame col territorio, la geografia fisica e quella interiore, i luoghi reali e quelli della mente. Poetica della Terra significa riconoscere l’incessante lavoro del rapporto psichico col territorio, farci interpretare la nostra vita interconnessa al tutto. La natura ma anche la cultura. Ecco perché scrivo del ragazzo selvatico raccontato da Truffaut, di Giovanni Segantini, pittore magnifico che «racconta» della luce in un viaggio di neve in Engadina. Ma anche delle tantissime persone incontrate in cammino e che mi hanno regalato spunti folgoranti. La geopoetica è un’idea del poeta scozzese Kenneth White, nata negli anni 70: è l’invito a pensarci diversamente rispetto alla Terra. La poesia della geografia si spiega da sola, è sufficiente aprire i sensi e avere fiducia nel proprio sguardo. Il capitolo «La geografia è poetica» è un atto politico e apre il libro, vi si spiega che cosa intenda per azione geopoetica. In questi anni viviamo la drammatica scelta di escludere la geografia dalle materie scolastiche, una scelta precisa, una barbarie non casuale: le forze che si intrecciano alla politica, come la criminalità organizzata, da decenni vogliono la distruzione del territorio cosi da annichilire lo spirito delle persone. Fin dalla tenera età vogliono disconnetterci, controllare, praticano un buio spirituale».

Che influenza ha avuto la sua passione per Jack London, di cui è uno dei più scrupolosi traduttori, e la cultura nordamericana in genere? Barry Lopez, per esempio, o Neil Young?
London è stata una riscoperta dell’età adulta. Mi ha dato tanto: mi ha fatto viaggiare, fisicamente e spiritualmente. Tradurlo è stato per me come vivere le sue storie. Barry Lopez invece è il grande maestro dell’interpretazione dei paesaggi geografici e culturali. Mentre vivevo la transizione dagli anni della musica a quello della scrittura senza confini, compresi che il linguaggio dentro di me cercava una scintilla speciale per farsi parola. Lopez è anche questo per me. Ma sono stati importanti anche Bruce Chatwin e Herman Hesse. Penso agli autori musicali che ho seguito, tradotto, spesso intervistato, come Neil Young… la musica è per me, citando il poeta scandinavo e Premio Nobel Tomas Tranströmer, «linguaggio, non parole». Ma devo per forza citare il cinema, presenza quotidiana nella mia vita: i miei grandi geni dell’orizzonte quali Akira Kurosawa, Terrence Malick, Andrej Tarkowskij, Ermanno Olmi e una poetessa suprema come Wisława Szymborska.

Lei spesso si inforesta. Lascia le sue cose e se ne va in bosco…
Avendo scelto di vivere in montagna per me la montagna è anzitutto orizzonte. Ho potuto immergermi in una geografia che mi aiuta a generare pensieri ripuliti dallo «smog» della nostra epoca. Il bosco è una lezione di vita: il suo spirito, la sua economia naturale, la sua bellezza, le interconnessioni tra le diverse essenze, tutto mi parla di equilibrio. Gli alberi sono persone e se cammino da solo, con loro, so di non esserlo mai veramente. All’idea della divinità etrusca dei boschi, Salvans, è dedicato il racconto del bambino Zurio (L’uomo del Moschel) e non è una pratica per isolarmi: al contrario mi svela la parte migliore di me, quella da mettere nelle relazioni sociali.

Un capitolo de «Il Geopoeta» è dedicato ai viaggi in Norvegia. «I diari di Rubha Hunish» ne furono diario e perlustrazione. Cosa ha significato per lei quel mondo?
Fin dai miei primi passi nelle regioni artiche, fin dalla lettura folgorante di Sogni Artici di Barry Lopez, compresi che la luce boreale mi avrebbe donato un effetto benefico. I viaggi, ma soprattutto la permanenza, mi hanno consegnato un messaggio «sottile», ma nondimeno «solido». Ho gioito quando il festival Det Vilde Ord, a Bodo, nel Nordland, mi ha invitato a lavorare sull’idea della mia geopoetica, per il Nordland Nasjonalparksenter. Essere li, meditare, camminare, interagire in una geografia, in quegli spazi per me ideali, introiettandoli nell’esperienza quotidiana, ha raffinato la percezione. È l’emozione che nutre l’elaborazione del pensiero. Prima di ogni altra cosa viviamo l’esperienza sensoriale e nell’Artico è come se le percezioni si facessero materia: le vedo, le tocco quasi.

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