Cultura

«In cammino con Gramsci», un pensiero declinato al futuro

«In cammino con Gramsci», un pensiero declinato al futuroMurales in via Gramsci a Orgosolo foto di Carlo Pelagalli (2013)

SCAFFALE Il volume di Giuseppe Vacca, con un saggio di Marcello Mustè (Viella). Riuniti tre saggi sul filosofo sardo composti nell’arco di un quindicennio (dal 1977 al 1991)

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 agosto 2020

A rileggerli d’un fiato, i tre scritti composti nell’arco di un quindicennio (dal 1977 al 1991) e ora riuniti da Giuseppe Vacca nel suo In cammino con Gramsci, corredati da un denso saggio di Marcello Mustè (Viella, pp. 220, euro 27), danno l’impressione di un «percorso» assai lungo, perché si collocano esattamente nell’epicentro di una duplice trasformazione: per un verso, coprono il salto dalle ultime propaggini del «trentennio glorioso» all’avvio della «rivoluzione neoconservatrice»; per un altro, vanno dagli ultimi tentativi di «uso» politico del pensiero di Gramsci dall’interno del Pci (il convegno fiorentino del 1977) all’emergere di uno scenario quasi del tutto inedito, in cui l’assenza di diretti referenti politici si accoppiava al rivolgimento completo del corpus gramsciano, con l’avvio dell’edizione nazionale dei suoi scritti.

C’È UN NESSO tra questi due ordini di fatti? A rileggere oggi i tre saggi si direbbe di sì, non però nel senso banale che, una volta terminata la feconda relazione con una cultura teorico-politica di partito, si sarebbe avviato Gramsci alla musealizzazione, ma in uno molto più complesso, che ha a che fare con la fine dell’idea che il socialismo si potesse costruire potenziando sempre di più il welfare state senza mettere mano a relazioni che, nel campo internazionale, rimanevano fondate su equilibri e dinamiche di tipo liberistico.

IN ESTREMA SINTESI, si può dire che si passa dal nesso tra egemonia e intellettuali (1977) a quello tra egemonia e interdipendenza (1991), passando per quello tra egemonia, intellettuali, Stato e «intelletto filosofico e scientifico moderno» (1985). In questa traiettoria, pur in presenza di una continuità di fondo, ci sono corposi cambi d’accento.
Se nel 1977 si sottolineava che le forme concrete dello Stato non sono, per Gramsci, coincidenti con il modo di produzione, ma chiamano in causa una molteplicità di elementi appartenenti alla storia nazionale, nel 1991 lo stesso asse è affrontato dall’estremo opposto: la costruzione del moderno Stato nazione obbedisce a una scissione tra politica nazionale e mercato mondiale, che ha condannato il movimento operaio a essere «appendice dei processi di modernizzazione», che esso non ha diretto e che lo hanno al contrario istituito e regolato.

Come sfuggire a questo ruolo di comprimario? Sviluppando un proprio fondamento della politica, che sia emancipato dalle radici decisionistiche e contrattualistiche del pensiero borghese. Questa è l’egemonia, in quanto «combinazione», ogni volta originale, di elementi nazionali e internazionali a vantaggio dell’intera società nazionale. Su questa base, lo spazio dello Stato moderno appare come l’effetto contingente dell’intersezione di due dinamiche: quella avvolgente e strutturante del mercato mondiale, interpretato da potenti vettori geopolitici (di qui l’imperialismo) ma anche dalla pressione molecolare della concorrenza, e quella segregante, esclusiva e gerarchizzante del potere politico nazionale. Il terreno vero e proprio della lotta per il socialismo non potrà dunque essere né quello del potere statale (da conquistare o spezzare), né quello del mondo come «orizzonte»: il mondo, al contrario, diventa il terreno in cui occorre combinare concretamente livello globale e nazionale in forme politiche tutte da costruire (ma già ai tempi di Gramsci se ne annunciava l’esigenza).

RIPENSARE LO STATO non più come «potenza» ma come inclusione etico-politica delle forze sociali in un progetto «nazionale»; valorizzare gli intellettuali e la cultura come terreno decisivo per questo compito; sviluppare il materialismo storico come «filosofia della praxis», cioè teoria dell’unificazione di teoria e pratica, intellettuali e masse, come un processo storico e non un dato di fatto meccanico: ecco i grandi capitoli del programma di ricerca di Gramsci, per come Vacca li ha, per primo, messi in luce nei tre saggi ora riproposti.

ORA, COSA HA A CHE FARE questa innovazione ermeneutica con il profondo rivolgimento del corpus gramsciano e l’avvio dell’edizione nazionale (che, va precisato, si deve anch’essa all’impulso di Giuseppe Vacca all’inizio degli anni Novanta)? Questa ha sottratto Gramsci al mondo dei «padri», restituendolo alla storia, ciò che sarebbe stato impossibile negli anni Sessanta e Settanta. L’edizione critica dei Quaderni del carcere (1975) dovuta a Valentino Gerratana avviò un modo completamente nuovo di guardare a questo settore del lascito gramsciano, ma è solamente con L’officina gramsciana di Gianni Francioni (1984) che ciò divenne un programma di ricerca concreto.

E NON CASUALMENTE Vacca fa discendere da questo testo la propria rivendicazione di una lettura diacronica, cioè storica dei Quaderni. In questo modo, non solamente si è iniziato a capire quali problemi editoriali proponessero queste carte, ma anche quanto profondo fosse il rapporto da esse intrattenuto con la realtà, come altrettanti tasselli di un mosaico aperto, perché prodotto dell’interazione con avvenimenti sempre nuovi.
Così, ci siamo trovati a scoprire che quel mondo, con cui Gramsci si confrontava, non era affatto incapsulato dentro la gabbia trascendentale dello Stato nazione, ma sorgeva, con la Grande guerra e la Rivoluzione russa, dalla sua crisi profonda. Si è aperto così un nuovo scenario, di cui questi tre scritti, oggi di nuovo disponibili, sono come il cartello di entrata.

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