In un celebre corso universitario del 1974-‘75 dedicato agli «anormali», Michel Foucault parlava del «mostro» come di qualcosa che contraddice la legge, come di un’infrazione a una normativa che è al contempo naturale, religiosa e giuridica. E questo mostro, secondo Foucault, è essenzialmente il misto dei due regni: l’umano e l’animale. Si tratta di un’ipotesi affascinante, elaborata alla luce dell’apparato giuridico-scientifico dell’epoca a lui prossima, ma che non si può applicare completamente alle società premoderne nelle quali il sentire comune era piuttosto rivolto a inserire le mostruosità all’interno dell’ordine della natura e magari a chiedersi quale fosse il significato di certe nascite mostruose – con il caso frequente di quelle interpretate profeticamente.

QUESTO AMPIO RAGGIO di credenze, che comprendeva lupi mannari, uomini silvestri, bambini-orsi o bambini-lupi e così via, non era respinto dalla cultura dotta, che anzi lo introiettava nelle narrazioni letterarie e in un certo senso lo giustificava alla luce delle riflessioni teologiche riguardo alle cause prime e alle cause seconde che regolano la Creazione. «Monstra vocantur quia monstrant», scriveva Ugo di S. Vittore, sintetizzando il pensiero che l’aveva preceduto; secondo Agostino, per esempio ciò che i mostri mostrano è l’onnipotenza divina; scriveva infatti: «Anche nell’ipotesi che in un luogo qualunque nasca un uomo, cioè un animale ragionevole mortale, quantunque presenti ai nostri sensi una insolita tipologia somatica di forma, di colore, di movimento, di voce o di caratteristiche in termini di forza, organi e proprietà, il credente non deve dubitare che egli proviene dal primo uomo». Secondo Isidoro di Siviglia, contrariamente a quanto nell’Antichità aveva scritto Varrone definendo i portenti «contro natura», essi sono fatti invece secondo la volontà Dio come tutte le creature; il portento dunque non è contro natura, ma contro ciò che in natura ci è noto.

Nel medioevo, una lunga tradizione mitica e favolistica dettaglia in vario modo il rapporto tra umano e animale. Belve che rapiscono donne e bambini; unioni sessuali fertili fra specie differenti; trasformazioni di uomini in animali; bambini esposti e allevati da animali come propri piccoli: tradizioni che non possono essere assimilate le une alle altre, ma che hanno in comune l’affrontare il tema del rapporto tra animalità e umanità.

IL CASO dei bambini esposti e allevati da animali gode presumibilmente della diffusione maggiore; si tratta di un motivo ampiamente diffuso al punto da farcelo definire come archetipico.
Valentin et Sansnom, chanson francese del Duecento andata perduta, ma sopravvissuta in una versione tedesca e poi diffusasi con il nome di Valentin e Orson dalla fine del Quattrocento, narra la storia di due fratellini abbandonati nel bosco, uno dei quali viene rinvenuto e cresce in un’immaginaria corte di ispirazione carolingia, l’altro Senzanome/ Orson viene invece allevato dagli orsi che lo crescono come una sorta di uomo selvaggio: si incontreranno da adulti, il selvaggio Orson diverrà il servitore e il compagno del civilizzato Valentin e insieme salveranno la madre. La natura umana e quella ferina, qui sdoppiate, si ricongiungono nella tradizione fiabesca di Jean de l’Ours, dove il protagonista è frutto dell’unione tra una donna e un orso che l’ha rapita: a seconda delle narrazioni, Jean è presentato come un uomo selvaggio dalla forza straordinaria oppure come un essere a metà tra l’umano e il ferino. Nel Bisclavret, uno dei Lais di Marie de France, si narra la storia di un licantropo costretto dal tradimento della moglie (che gli ha sottratto gli abiti necessari per poter tornare alla forma umana) a non poter tornare uomo. Viene tuttavia accolto nella sua sembianza di lupo alla corte del re, che lo incontra durante una battuta di caccia nella quale l’animale tiene un insolito comportamento affettuoso, nobile e gentile (Bisclavret era un barone del re); alla fine Bisclavret svelerà il tradimento della moglie, riotterrà la possibilità di tornare umano (sempre per metà) e di riavere le sue terre.

Tra il selvatico/bestiale e l’umano non si erge dunque una barriera insormontabile; in particolar modo per i versipelle che sembrano incarnare fisicamente questa possibilità di passare dal ferino all’umano senza soluzione di continuità. Dalle saghe norrene si evince chiaramente una concezione secondo la quale gli individui (ma anche le divinità) sono composti di un principio vitale, l’hugr, e della pelle, la hamr, una sorta di involucro che attraverso certe tecniche è possibile controllare e mutare: così com’è proprio di Odino o dei suoi guerrieri prediletti, Berserkir e Úlfheðnar, che «escono fuori di sé» nel senso che mutano pelle passando dalla condizione umana a quella ferina.

NELLA TRADIZIONE medievale circolavano storie di bambini allevati da animali, talvolta utilizzate come exempla moraleggianti: ricordiamo quello di Jacques de Vitry nel quale una lupa rapisce alcuni bambini e li alleva; quando uno di questi prova ad alzarsi in piedi e camminare, è corretto dalla lupa che lo costringe a rimettersi a quattro zampe; per il predicatore è come il lupo infernale, il diavolo, che rende l’uomo prostrato, curvo per impedirgli di alzare gli occhi al cielo. Tuttavia, il predicatore traeva questi spunti da racconti che circolavano numerosi e con altro significato. Nella Germania del Trecento, alcune cronache raccontavano casi di «bambini selvaggi» come reali, senonché questi trovatelli avrebbero raccontato la loro vicenda, non si capisce come dal momento che non potevano saper parlare. L’onda lunga di queste credenze la ritroviamo nella scienza moderna: Linneo nella decima edizione (1758) del Systema Naturae aveva inserito l’homo ferus, peloso, muto e che cammina a quattro zampe.

Tra Settecento e Novecento il tema dei «bambini selvaggi», piccoli abbandonati e allevati da mammiferi – lupi, generalmente, ma anche orsi –, poi ritrovati e studiati dai comportamentisti, eccitava l’immaginazione dei contemporanei: questi ritrovamenti infatti si pensava avrebbero permesso di comprendere cosa succedeva a un bambino cresciuto lontano dagli umani, ossia quanto i caratteri umani fossero innati e quanto invece venisse appreso attraverso la trasmissione culturale.

OGGI SI È DELL’IDEA che questi bambini fossero stati in realtà abbandonati dai genitori perché affetti da forme di deficit; l’adozione fra le fiere altro non sarebbe se non una narrazione che andava incontro ad aspettative profondamente radicate nel mito e nelle fiabe; così come è stato ricostruito, per esempio, da Bruno Bettelheim a proposito di uno degli episodi più famosi, quello delle due bambine, chiamate Amala e Kemala, ritrovate in India nel 1920 dal reverendo Singh, il quale ne avrebbe narrato per iscritto la vicenda circa vent’anni più tardi. Oppure del «ragazzo selvaggio» dell’Aveyron, Victor, vissuto a cavallo fra Sette e Ottocento, la cui storia è stata raccontata da François Truffaut nel film L’Enfant sauvage (1970).

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SCHEDA. 1304, la cattura di un bimbo-belva

Dagli Annali di San Pietro di Erfurt: «1304. Fu catturato un bambino nella regione dell’Assia; questo bambino, come abbiamo saputo, e come ci ha riferito, era stato preso dai lupi quando aveva tre anni e allevato in modo mirabile. Infatti, qualunque preda i lupi avessero catturato, ne prendevano la parte migliore e gliela davano da mangiare mentre si radunavano attorno a un albero. Nel tempo freddo dell’inverno facevano una fossa e la riempivano di foglie d’albero e altre piante, e circondavano il bambino con i loro corpi per proteggerlo dal freddo; lo costringevano anche a stare sulle mani e i piedi e a correre con loro a lungo, e da questa pratica era in grado di imitare la loro velocità e compiere grandi salti. Quando fu catturato, con l’aiuto di legni fu costretto a restare eretto alla maniera degli umani; tuttavia il bambino diceva spesso che preferiva vivere tra i lupi piuttosto che tra gli uomini».