Torna in libreria I luoghi persi di Umberto Piersanti, libro ripubblicato dall’editore Crocetti (pp.143, euro 14.00) a quasi trent’anni dalla sua uscita einaudiana, con una importante appendice di poesie inedite scritte nel corso del 2021. E già, come coglie in prefazione Roberto Galaverni, il titolo definisce e definì sin dal lontano 1994, il cuore pulsante della scrittura di questo mirabile poeta, la sua specifica declinazione, che sempre prese l’abbrivio da un particolare territorio urbinate, quello delle Cesane, per svolgere quella complessa narrazione dell’umano, che sempre gli è stata a cuore, attorno alla storia di una comunità. E quanto la poesia ha bisogno di luoghi specifici per non risultare vuota astrazione e certo questo attiene alla maestria del poeta, alla capacità di visione e sguardo, unita a quella di una sua precipua nominazione delle cose del mondo. Ecco allora il dono di Piersanti: identificare e definire perentoriamente luoghi, psicologie, circostanze e riportarle al lettore nella loro chiarezza ma anche oscurità, dentro gli irreversibili passaggi della storia.

E POESIA DEL LUOGO, non può non essere anche quella della memoria e cioè di qualcosa che è perduto ma la perdita a sua volta qui sa generare un particolare stato: la rammemorazione. E allora il verso di Piersanti sembra capace di riaccendere certe lontane relazioni, come sospese in uno strano limbo metastorico, che pare talvolta si avvicini per potenza visionaria, a quelle grandi tele di Chagall, dove quadri di vita famigliare sono intrisi e pervasi sempre da una stupefacente scia onirica: «giù per il fosso Madìo/ trovava lo sprovinglo,/ un cane che gli era entrato nel biroccio/ e poi diventa sempre più grosso e nero/ l’incontrava laggiù, sotto Che Spasso». Naturalmente Piersanti nella sua lunga opera, metterà a fuoco altre importanti finestre di esplorazione, come quelle che già in questo libro si affacciano timide sull’amato figlio Jacopo e paiono aprirsi sul senso di una fine, di una fragilità, sempre immanente. Ma tornando allo spazio di questa silloge, ecco materializzarsi nei versi, i nomi favolosi di tante donne e uomini e come non citare per esempio «l’Ava»,«la Fenisia», Madìo ed il poeta evocandoli, chiama a raccolta una storia, una antropologia, ricostruisce poesia dopo poesia, una memoria individuale che si allarga alla collettiva risultando questa così vivificante, quasi più vivente degli accadimenti della nostra quotidianità. Ed allora Piersanti, in questo libro, come d’altronde in tutta la sua opera, continua a riscrivere quell’acuminato discorso che mai terminerà, sempre in bilico tra senso di una comunità e sua perdita: «le nevi d’una volta/ sulle Cesane/ i volti d’una volta/ sulle Cesane/ le vicende d’una volta/ sulle Cesane». E le molte memorabili ombre che scorgiamo nelle pagine, sembra tornino a darsi appuntamento, proprio nel territorio della natura, nei suoi saliscendi vorticosi, ritrovando nell’hic et nunc del verso, lo spazio di un nuovo ed imprevedibile incontro.

ECCO ALLORA l’ambivalenza del luogo perso: da una parte così vicino al poeta per ciò che rappresentò, dall’altra simbolo di totale smarrimento, per la sua impalpabile ed attuale estraneità: «prima che nascessi furono insieme/ stavano tutti là presso l’aiola/ a pescare castagne nel caldaro/ ora mancano tutti, manca una casa/ solo prima di nascere l’ho avuta». E questo sottile sbiadire dal territorio, sensazione così presente nella raccolta, non solo attiene alla vicenda psicologico-memoriale ma anche a quella fisiologico-vitalistica del poeta. La scrittura di Umberto Piersanti, nella progressione delle pagine, sembra acquisire il tono di quei lontani e grandi poeti latini, su tutti Ovidio, perché cammina sul crinale sempre erto dell’esilio, l’esilio dalla felicità, continuamente incrinata dalle prove ardue dell’amato Jacopo, l’esilio «dall’antico», come insieme di storie e spazi linguistici remoti che più verranno; l’esilio infine dalla forza dell’infanzia, luogo mistico ed assieme materico di insuperabile bellezza. Ma proprio in questi luoghi persi, il perduto continuamente torna a materializzarsi ed indicare una via: «e non sempre eri solo,/ ava dagli occhi azzurri/ ancora tu mi guidi,/ guidi e sorreggi/ nel folto delle selve/ e tra i miei greppi». Ecco, nell’opera di Umberto Piersanti, la vita affacciarsi come mistero insoluto, ecco l’esistere pur grève che sia, esser sempre benedetto, perché unica nostra vera gloria.