Visioni

In bilico su Atlantide, il diario rock di Celona

In bilico su Atlantide, il diario rock di CelonaDaniele Celona – foto di Fabio Marchiaro

Musica Si intitola «Amantide Atlantide» il secondo lavoro discografico dell'artista torinese. Canzoni in una curiosa alternanza di atmosfere

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 6 febbraio 2015

Quanti sogni si porta dietro l’uscita di un disco sulla nostra scena musicale indipendente? Tanti, nella stragrande maggioranza destinati a divenire scie di meteore dentro uno spazio troppo affollato. C’è chi prova a coltivare il sogno nei concerti dei circuiti alternativi, tanta fatica e poco ritorno economico, però ci scappano applausi e il wharoliano quarto d’ora di celebrità. C’è chi, come il torinese Daniele Celona, al secondo disco, appena uscito, Amantide Atlantide (NøveRecords/Sony Music), va avanti per la sua strada con disincantata coerenza di scelte artistiche. L’esordio di Daniele, nel 2012, si chiamava Fiori e Demoni (NøveRecords/Sony Music). La «formula base» è rimasta immutata nel secondo lavoro: chitarra e voce per un rock potente che, chiedendo agli altri strumenti in gioco di non esercitare un puro lavoro di spalla, alza toni e decibel, poi stende una passatoia più morbida, e nel brano successivo torna sui propri passi.

Un’alternanza di atmosfere, cui le capacità vocali, la scelta soppesata delle parole per le tematiche dei testi, l’attento mix in studio conferiscono ulteriore pregio. Ma le somiglianze tra prima e adesso finiscono qui. È lo stesso Celona a raccontarlo, spiazzando l’interlocutore e spazzando il sogno citato più su «Con Amantide Atlantide non ho pensato a un processo evolutivo. Dovendo rispondere soltanto a me stesso, ho fatto quello che mi piace. C’è però una discriminante. Qui ho lavorato meno per il bene della canzone. Cuori e Demoni era un disco ragionato, molto imbastito al computer, più freddo. Questo disco è frutto, nella sua sostanza, del lavoro in sala. In certi casi ho sacrificato la forma canzone, pensando al divertimento dal vivo, seguendo le caratteristiche dei Nadar Solo, la band produttrice insieme a me del disco. Sono partito, sì, da chitarra e voce. Ma poi hanno influito molto gli arrangiamenti. Ci trovi pezzi di sei minuti e mezzo, sezioni strumentali molto lunghe. Dal punto di vista commerciale è proprio una mazzata sui piedi. Il singolo uscito per anticipare il disco, La colpa, non ha neppure il ritornello».

Hai appena parlato di piacere del divertimento. Testi e musiche del disco, però, riecheggiano sovente un’amarezza profonda. Cito Sud Ovest “Anche il cane dagli occhi neri viene spesso a faci visita/ Certe ferite aperte attirano il suo olfatto/ Dove la carne è più tenera lì può attecchire la tenebra/ Nella provincia più profonda cos’altro dovresti fare/ Drogarti? Scopare? Diventare un militare o un minatore”; oppure Politique “Forse non hai mai alzato il culo più della tua voce/ forse non hai mai distinto tra un cittadino e un uomo/ il primo dà il perdono, il secondo non è detto/ Ricordalo, quando vedi i nostri occhi stanchi per strada”.

«È una mia terapia scaricare tossine nei brani e nei testi. Mi permette di vivere meglio il resto del tempo. Non ho alcun intento predicatorio, politico in senso lato. Sono discorsi fatti a me stesso, dialoghi allo specchio o con un interlocutore immaginario». Però è facile immaginare, in chi ti ascolta, un’identificazione con quello che canti «Certo. Dall’ambito personale, si passa a quello corale. Il momento raccontato si amplifica e si allarga agli altri. Però, se non intendo essere un predicatore, neppure faccio il tenebroso di proposito. Le cose mi escono così». Escono bene, e ancora meglio ascoltando il disco più volte per entrare dentro i suoi dettagli, apprezzarne fino in fondo le sfumature. Un disco che, vecchia storia nel mondo indie, ha dovuto fare conti economici difficili per arrivare a produrre undici tracce dove il nuovo si sente.

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