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«In Amazzonia ho visto l’inferno»

«In Amazzonia ho visto l’inferno»

Intervista Il fotografo e regista Lou Dematteis ha vissuto e fotografato i conflitti ambientali e sociali nel mondo. La sue immagini a Corigliano d’Otranto e a Roma

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 28 settembre 2023

Nell’Amazzonia ecuadoriana ho visto l’inferno dantesco. C’erano piaghe infette sul suolo della foresta pluviale». Lou Dematteis, classe 1948, fotoreporter e regista, ha lavorato per la Reuters e dedicato la vita a raccontare i conflitti sociali, politici e ambientali nel mondo. Ospite della Festa del Cinema del Reale e dell’Irreale, quest’estate ha inaugurato la mostra Five from One. Cinque paesi, cinque storie, a Corigliano d’Otranto (Lecce) fino al 19 ottobre. A dicembre sarà a Roma.

Dopo anni come reporter di guerra in Centro America, lei è arrivato nell’Amazzonia ecuadoriana e ha detto di aver trovato un altro tipo di guerra. In che senso?

Mi sono recato per la prima volta nella regione amazzonica settentrionale dell’Ecuador nel ‘93 per indagare sulle denunce relative a un’estesa contaminazione ambientale e ai danni provocati dall’attività petrolifera. Quella che ho trovato in Ecuador non era una guerra a colpi di arma da fuoco, ma era comunque una guerra contro l’ambiente e gli abitanti. Ho visitato i vecchi pozzi petroliferi della Texaco. Ho visto acque reflue tossiche scaricate in fosse a cielo aperto piene di petrolio greggio. Sembravano piaghe infette sul suolo della foresta pluviale. L’azienda ha lasciato l’Ecuador nel ’92 ed è stata acquistata dalla Chevron. Lo scarico è continuato nei pozzi e negli impianti. Molte fosse sono state incendiate per bruciare il greggio di scarto.

Sono trascorsi 10 anni tra il primo viaggio e il secondo. Com’è cambiata nel frattempo la vita delle popolazioni amazzoniche dell’Ecuador?

Durante il mio primo viaggio, nel ‘93, ho parlato con un medico del Ministero della Salute dell’Ecuador che lavorava dove si trovano i pozzi di petrolio. Lui credeva che la regione fosse una bomba a orologeria a causa della contaminazione da rifiuti tossici. Diceva che ci sarebbero voluti circa 10 anni perché i tumori e le altre patologie gravi e fatali si manifestassero. Il risultato sarebbe stato un’epidemia. Quando nel 2003 sono tornato in Ecuador, ho scoperto che la bomba a orologeria era esplosa. Ovunque mi girassi, incontravo persone che convivevano con gli impatti di questa tragedia ecologica. Erano affette da cancro, malformazioni congenite, malattie respiratorie.

Alcuni dei suoi scatti ritraggono gli effetti di questo disastro ecologico sulle popolazioni locali…

Ho documentato ampiamente i danni ambientali e sanitari causati dalla contaminazione Texaco/Chevron. Una delle prime persone che ho fotografato nell’Amazzonia settentrionale è stata Angel Toala, un attivista del Fronte di difesa dell’Amazzonia. Angel stava morendo di cancro allo stomaco. Era così debole da non riuscire a parlare. Sua moglie lo faceva per lui. La sua testimonianza è contenuta nel mio libro Crude Reflections. Ho scoperto in seguito che Angel è morto il giorno dopo aver scattato quella foto. Ho continuato a fotografare molte altre persone, di tutte le età, che soffrivano di problemi di salute dovuti alla contaminazione.

Per i danni di Texaco e Chevron c’è stato un processo. Come è terminato?

Il processo contro Chevron per la contaminazione ambientale e i conseguenti problemi di salute è iniziato nel 2003 e si è concluso nel 2011 con l’accertamento della colpevolezza della multinazionale, condannata a pagare 9 miliardi di dollari per rimediare ai danni ambientali e occuparsi dell’acqua potabile e delle strutture sanitarie per la popolazione colpita. Purtroppo, Chevron ha fatto ricorso a numerose azioni legali per contrastare la sentenza ed evitare di pagare.

In Ecuador di recente si è svolto un referendum sulle attività petrolifere in Amazzonia. Che valore ha la decisione presa?

Una grande vittoria! Il 20 agosto gli ecuadoriani hanno votato per porre fine alle trivellazioni petrolifere nella regione Yasuní dell’Amazzonia ecuadoriana, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del pianeta. L’ambientalista John Quigley ha scritto: Un momento da celebrare per la Terra e per il futuro della vita su questo pianeta. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Il popolo ecuadoriano deve assicurarsi che il governo prosegua in questa direzione e interrompa effettivamente le attività di trivellazione. La battaglia non è ancora finita. Ma è un ottimo inizio e un esempio di ciò che deve essere fatto in tutta l’Amazzonia.

La sua produzione fotografica e filmica è molto vasta. Qual è l’esperienza che l’ha più segnata?

Come fotoreporter e regista ho cercato di far luce sulle cose che dovremmo custodire e sulle cose che dobbiamo cambiare. Penso che la guerra, la distruzione dell’ambiente e il cambiamento climatico siano i maggiori pericoli che dobbiamo affrontare come esseri umani. Penso che si debba lottare per preservare i diritti umani di tutta la popolazione mondiale. Nel caso delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, esse vivono nel profondo rispetto dell’ambiente e delle loro culture. Sono protettori delle foreste e, così facendo, proteggono il nostro pianeta per tutta l’umanità.

In Nicaragua è stato rapito dai controrivoluzionari. In Ecuador è stato seguito. Cosa ricorda di quei momenti?

Al momento della cattura da parte dei ribelli dei Contras in Nicaragua, ricordo di aver pensato che c’era una buona possibilità di perdere la vita. Ma ero calmo perché i ribelli che ci avevano catturato erano molto nervosi ed era importante che rimanessi tranquillo. Dopo alcune ore, io e i miei colleghi fummo liberati. Fu un’esperienza spaventosa. Per il mio lavoro in Ecuador, invece, durante un viaggio i miei spostamenti vennero monitorati da agenti della Chevron. Alcune persone coinvolte nel caso Chevron erano già state uccise, quindi ero molto preoccupato e molto attento.

La prima guerra che l’ha segnata è stata quella in Vietnam. Ha visitato il paese a distanza di anni da giornalista…

La guerra del Vietnam è stata un evento determinante per la mia generazione. È finita nel ‘75. Sono andato per la prima volta in Vietnam a fotografare nel ‘92, 17 anni dopo la fine della guerra. Sono andato a vedere come il Paese, che era stato sottoposto a una lunga e brutale guerra promossa dal mio Paese, si stesse riprendendo e affrontasse il futuro. Alla fine ho visitato il Vietnam quattro volte e i viaggi mi hanno aiutato a guarire personalmente da ciò che avevo vissuto in sei anni di copertura della brutale guerra in Nicaragua.

Il suo legame con l’Italia ha origini antiche. Ha anche realizzato un film «Crimebuster» che lo racconta. Qual è il suo rapporto con il nostro Paese?

Tutti i miei nonni sono emigrati in California dal Nord Italia. Sono cresciuto in una famiglia italoamericana molto orgogliosa del proprio patrimonio. Volevo venire in Italia e dopo la laurea l’ho fatto. Mi sono sentito a casa. Vedendo le opere d’arte e i reperti archeologici, è avvenuta come un’esplosione nella mia testa. Questa esperienza mi ha portato a decidere di diventare fotografo. Ho contribuito alla creazione di una Galleria degli Immigrati presso il Museo Storico della Contea di San Mateo, in California. E il 5 dicembre inaugurerò una mostra al Museo di Roma in Trastevere, composta da 105 foto in bianco e nero dell’Italia che ho scattato tra il ‘72 e l’80. Si intitola A journey back/Un viaggio di ritorno, che diventerà anche un libro.

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