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Imputabilità penale e disturbo mentale, avanti con la riforma

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Fuoriluogo Se si pone l’alterazione psichica a movente del reato, si riconduce la violenza nell’ambito unicamente individuale, cancellando la importante componente sistemica

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 5 maggio 2021

In Francia è sotto accusa la legge che stabilisce la non responsabilità penale per autori di reato che abbiano agito in condizioni di incapacità di intendere e volere (per alterazione psichica dovuta a malattia mentale o a ingestione di sostanze psicoattive). La polemica infuria su un delitto particolarmente efferato: nel 2017, Kobili Trahoré picchiò a morte e scaraventò dalla finestra una inerme direttrice di asilo in pensione, Sarah Halimi, sua vicina di casa ebrea, al grido di Allah u Akbar. Kobili Trahoré, è stato però ritenuto dalla giustizia francese non imputabile perché affetto da «psicosi delirante acuta» dovuta all’assunzione di hashish. Indignata è la denuncia di Bernard Henri Levy (Repubblica, 26 aprile) che scrive: «siamo in un paese in cui un uomo che getta il suo cane dal quarto piano viene condannato a un anno di prigione, ma se massacra una vecchia signora ebrea non può essere processato».

Dunque, è l’orrore di quel «massacro» unito all’altro orrore, del movente di odio antisemita, a scuotere le coscienze. In Italia, un turbamento simile ha suscitato qualche mese fa l’uxoricida di Brescia, assolto in primo grado per incapacità di intendere e volere in quanto affetto da «disturbo delirante di gelosia». L’incapacità di intendere e volere è un escamotage della giustizia a favore dei colpevoli per chiudere gli occhi di fronte all’antisemitismo o al femminicidio? È una scusante offerta al colpevole che aggrava l’offesa alla vittima? Sono domande in linea con gli umori prevalenti, bisogna vedere se sono quelle giuste.

Pur non conoscendo i particolari della sentenza francese, la «psicosi delirante acuta» da hashish invocata dai giudici ricorda tanto la famosa propaganda anti marijuana degli anni trenta di Harry Anslinger, di cui uno dei leit motiv era appunto: dopo uno spinello potresti uccidere tuo fratello. Nel caso italiano, l’idea dei giudici italiani che il «disturbo delirante di gelosia» escluda la definizione di femminicidio non sta in piedi. Il disturbo psichico non altera il fatto che la persona viva in un contesto di codice patriarcale in cui la gelosia legittima la violenza nei confronti della donna per riaffermarne il possesso. In altri termini il «delirio» non altera il significato, individuale e sociale, della gelosia come movente. Lo stesso vale per l’assassino di Sarah Halimi: il «delirio» invocato dai giudici non cancella il movente dell’odio antisemita.

Se si pone l’alterazione psichica a movente del reato, si riconduce la violenza nell’ambito unicamente individuale, cancellando la importante componente sistemica, in questo caso dell’antisemitismo. Da qui la ingiustizia percepita, aggravata dal fatto che il colpevole viene esonerato dalla sanzione, il che rischia di essere interpretato come negazione dell’antisemitismo.  Anche i colpevoli hanno molto da perdere: privarli della responsabilità delle loro azioni significa negare loro la soggettività, «confinandoli in una condizione di non-persona», come ha scritto di recente Maria Grazia Giammarinaro.

Il 12 maggio sarà presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge, n. 2939, a firma Riccardo Magi, per superare la non imputabilità per vizio di mente e prefigurare misure alternative alla detenzione per curare le persone con disturbi mentali. Nel Manifesto a sostegno della proposta, frutto del lavoro di molte associazioni, se ne ribadisce il senso: «Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo la responsabilità – e con ciò la possibilità di comprensione – delle loro azioni; e risparmiando lo stigma che il verdetto di incapacità di intendere e volere e l’internamento recano con sé».

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