Se succede qualcosa di memorabile a Roma in campo musicale potete scommettere che succede all’Istituto Svizzero. Il perché non si sa. Ma è così. Luogo fiabesco, giardini incantati, sale e salette con libri rari e opere d’arte contemporanee inserite qua e là, una scultura di John Chamberlain ad accogliervi in cima alla scalone. In programma tutte le Suites per pianoforte di Giacinto Scelsi del periodo 1952-1956. In due giornate. Per il festival Romaeuropa. Lo Steinway è affidato a Fabrizio Ottaviucci. Bello come un dio, come un appartato figlio dei fiori (non idoelogico, oh no!), la leggiadrissima coda di cavallo sulle spalle. È nel suo elemento, lui è uno scelsiano storico. Lo dimostra lungo le quattro ore complessive della performance: sta benissimo nell’intimità estrema di alcune pagine e nell’estrema violenza, mica poi tanto mistica come si dice sempre, di altre. Si cuce addosso Scelsi ma non lo tiene per sé. Comunicativo? Eccome.

Questo è lo Scelsi del ritorno al lavoro artistico – dopo un lungo periodo di silenzio. Chi ha trascritto le Suites 8, 9, 10, 11 e 11b, quest’ultima ritrovata da pochissimo, suonata da Ottaviucci in anteprima l’anno scorso al festival AngelicA di Bologna e adesso come novità assoluta per Roma? Non è noto, probabile che tra i trascrittori ci siano state le dispute che contornano la storia e la leggenda di questo compositore. Scelsi non scriveva sul pentagramma, improvvisava al pianoforte e dagli anni ’60 in poi all’ondiola, una specie di sintetizzatore rudimentale.

Con queste cinque Suites e con Action Music n. 1 (1955) si attua un passaggio nella musica di Scelsi. Dalle esplorazioni sul ‘900 europeo degli anni passati, dodecafonia compresa, a una libertà sconfinata di motivi di ispirazione e di modalità ideative. La contemplazione e la meditazione buddista, le deflagrazioni barbariche, i procedimenti ripetitivi, gli squarci melodici distesi, gli echi del passato classico e romantico. E dopo, anni dopo, verrà quel culto del campo sonoro circoscritto, da indagare con amore maniacale. Ma quest’ultimo Scelsi, il più noto, è di là da venire. Quello che ascoltiamo da Ottaviucci in una occasione davvero unica è lo Scelsi più imprevedibile, più capriccioso, più autenticamente improvvisativo.

Improvvisazione come composizione. Abbandono alla curiosità del momento, anche all’errore del momento (come spiegava Thelonious Monk), e coerenza di un disegno musicale sorretto dal pensiero.
Come raccontare l’incredibile successione di episodi musicali contenuta nei movimenti delle Suites? I movimenti sono tanti, una decina per ogni opera, e sempre diversi, sempre inattesi. La Suite 8 e la 9 sono le più famose, anche per via dei loro titoli e sottotitoli descrittivi, letterari, filosofici (e prescrittivi). Bot-Ba,«evocazione del Tibetcon i suoi monasteri sulle alte cime delle montagne» la prima; Ttai (Pace), «una successione di episodi che esprime alternativamente il Tempo, più precisamente il Tempo in movimento e l’Uomo come simbolizzato da cattedrali o da monasteri, con il suono dell’Om sacro. Questa Suite deve essere ascoltata e suonata con la più grande calma interiore. Gli agitati se ne astengano!» la seconda. Per l’interprete si tratta di dar retta un po’ e un bel po’ di dimenticare i dettami dell’autore. Come sempre nell’interpretazione. In questo caso ancora di più.

Il secondo movimento della 8 è la meraviglia delle meraviglie (ma la formula va ripetuta tante tante volte in tutti e cinque i lavori). Suoni isolati all’inizio, sembra farsi strada il gusto dell’analisi del singolo suono, poi linee melodiche per accordi di sapore romantico. Come fa Scelsi a mescolare elementi così diversi e ottenere gran fascino e grande autorevolezza culturale? Ci riesce. Subito dopo arriva un movimento basato su uno «staccato» bartokiano, mosso, agitato, quasi ansioso. E dopo ancora, nel movimento successivo, una serie di cluster e di giganteschi accordi dissonanti violentissimi, altro che quiete dei monasteri, d’altra parte dicono che i monaci tibetani siano inquieti assai. Non possiamo tutti dirci pacifisti, ma quella della Suite 9 è la pace che tutti vorremmo! Un movimento in forma di preludio all’inizio, quasi un Bill Evans in certi tempi lenti. Nel quarto movimento, un adagio lirico, c’è proprio una impudica melodia romantica/esotica. Da sciogliersi.

La Suite 11 la mettiamo al primo posto della Top Five. L’esplosione sonora del primo movimento è scioccante, nel secondo c’è una meditazione angosciata con accordi sul grave, nel terzo una ariosità e serenità che sembra non stare né in cielo né in terra e giochi di arabeschi mirabili e poi di nuovo tempesta «barbarica» (il nume Bartók aleggia sempre) e poi arpeggi scabri in stile pura avanguardia del ‘900 e poi una «pausa di ristoro» lunare/dolce. Che dire? I materiali usati, le armonie, le linee di melodie, sono di una freschezza e originalità da capogiro. Come facevano i circoli musicali italiani del tempo (a parte Franco Evangelisti) a non accorgersi di Scelsi o a classificarlo con disprezzo tra i dilettanti velleitari? Invece Cage e Feldman lo amavano tantissimo. Mica erano provinciali, loro.