Era un appuntamento un po’ obbligato quello del Musée d’Orsay con la scadenza dei 150 anni della mostra che, secondo vulgata, nel 1874 aveva dato il «la» all’Impressionismo. Il museo progettato da Gae Aulenti deve il suo successo proprio al fatto di essere per il grande pubblico «la casa degli impressionisti», e il debito andava assolto. Nel titolo della mostra Paris 1874 (aperta fino al 14 luglio, dall’8 settembre a Washington, National Gallery of Art) la parola-feticcio però non appare. Appare nel sottotitolo, in una modalità che spiazza e che per questo annuncia inattese e inedite piste di lettura rispetto a quel fatidico 1874: Inventer l’impressionisme.

Le due curatrici, Sylvie Patry e Anne Robbins, mettono subito in chiaro le cose: «L’esposizione del 1874 è diventata il punto di partenza di una narrazione modernista e teleologica, dove la modernità, sinonimo di rottura e di novità, avanza a forza di esposizioni-manifesto». I due principali artefici di questa narrazione erano stati, con i loro studi, Lionello Venturi nel 1939 e John Rewald nel 1946. L’ipotesi di lavoro che le curatrici si sono date è stata quella di prescindere da questo approccio ormai diventato di scuola e accettato troppo supinamente, e di analizzare in modo lenticolare quel 1874, cercando di far riemergere il «percepito» del pubblico e della critica di allora. La mostra organizzata dall’Associazione «di scopo» che radunava un gruppo di artisti era inaugurata il 15 aprile negli spazi lasciati liberi da Nadar, al terzo e quarto piano di 35, Boulevard des Capucines: un edificio con struttura di ferro e grandi vetrate che ancora oggi si affaccia sul grande viale haussmaniano. Due settimane dopo sarebbe stato inaugurato l’annuale Salon nelle consuete modalità faraoniche. Ma, numeri alla mano, in quella primavera erano quasi una decina le esposizioni pubbliche offerte al pubblico parigino. A proposito di numeri, fra i trentuno artisti che esponevano a Boulevard des Capucines, i futuri impressionisti erano decisamente una minoranza: solo sette. E non destarono tutto lo scandalo che la mitologia accredita a loro merito. Sui circa sessanta articoli che parlarono della mostra, solo sette portarono allo scoperto toni ostili. I più, invece, sottolinearono, e non senza ragioni, l’aspetto «eclettico» dell’esposizione, che aveva radunato senza farsene preoccupazione artisti molto diversi. Tra di loro ben dodici erano presenti contemporaneamente anche al Salon, inaugurato a maggio. Vista da vicino, la realtà di Paris 1874 si rivela quindi molto meno lineare e, di controcanto, molto più porosa di quanto un ben consolidato luogo comune ci ha sempre fatto pensare.

Jean-Jacques Henner, “Le Bon Samaritain”, 1874, Salon del 1874, Montpellier, Musée Fabre

Quella Parigi era una città sottoposta a due spinte contrapposte. Da una parte c’era il richiamo di un ritorno all’ordine, dopo il disastro anche morale della disfatta contro i Prussiani e dopo la grande paura per i fatti della Comune. Nel 1873 come direttore dell’amministrazione delle Belle Arti era stato nominato il marchese Charles-Philippe de Chennevières, un conservatore che predicava la riabilitazione della grande tradizione e che impose un premio al Salon per favorire il ritorno alla pittura di storia. Dall’altra parte c’era una città in piena effervescenza sociale, la ville lumière che grazie alle luci accese in gran parte delle strade viveva 24 ore su 24: una città libera e anche ansiosa di guardarsi allo specchio in questa sua dimensione di arrembante modernità.

Queste spinte contrapposte, però, non avevano trovato nel 1874 situazioni espositive altrettanto chiaramente definite. Basti pensare che la più straordinaria e anche sconcertante rappresentazione della vita moderna era esposta al Salon e non in Boulevard des Capucines: Le chemin de fer di Edouard Manet, opera dipinta l’anno prima, era appesa con il numero 1260 negli spazi immensi del Grand Palais. Victorine Meurent, già modella per l’Olympia, guarda con aria di sfida avendo alle spalle l’elemento brutalista della cancellata, che sembra chiudere ogni spazio, anche mentale, a possibili ritorni al passato.

Nel Salon di quell’anno, del resto, si parlavano più lingue di quanto non si possa immaginare, come dimostra l’opera di Jean-Jacques Henner, Il buon samaritano, che stempera l’accademismo in un naturalismo pieno di sensibilità e delicatezza. Non a caso Henner era stato cercato da Degas per verificare una sua possibile adesione alla mostra di Boulevard des Capucines. Ma Henner, come del resto anche Manet, aveva declinato l’invito.

Con appena 3500 visitatori paganti, e solo quattro opere vendute nonostante l’apertura eclettica a gusti collezionistici molto diversi, la mostra del 1874 si era chiusa in modo se non fallimentare certamente deludente. Sicuramente non fece scuola, come sottolineano le curatrici. Tant’è vero che l’Associazione venne sciolta a dicembre e che per le sette mostre successive, fino all’ultima del 1886, furono scelte altre modalità, trovando in particolare la sponda di un gallerista, Paul Durand-Ruel, che accolse nel 1876 nei suoi spazi di Rue Le Peletier la seconda esposizione di quel gruppo di pittori che continuavano a rifiutare una designazione collettiva.

Eppure in quella situazione così porosa e confusa non si può certo negare che in particolare ad alcuni del gruppo mancasse una precisa e a volte anche bellicosa autocoscienza delle proprie scelte artistiche. È il caso di Cézanne che aveva scelto di presentare in Boulevard des Capucines, tra le altre sue opere, un autentico guanto di sfida come Une moderne Olympia. Nella piccola tela la pittura non trattiene la sua concitazione (di «delirium tremens» aveva parlato un critico) e trova un controcanto figurativo nell’irruente gesto dell’inserviente nera, che strappa letteralmente il lenzuolo dal corpo tutto contratto della modella sdraiata sul letto-monumento. In questo modo squaderna il corpo nudo davanti agli occhi dell’osservatore-cliente, tutto di punto vestito, altra audace novità iconografica. In alto incombe la mole spropositata del vaso strabordante di fiori, ulteriore esercizio di spregiudicata libertà pittorica.

Il percorso di Paris 1874 si chiude con un affondo sulla mostra del 1877, la terza del gruppo, accolta sempre negli spazi di Durand-Ruel, dove per la prima e anche unica volta i protagonisti si erano autodefiniti «impressionisti”, dichiarandolo sul manifesto. Mancava di nuovo Manet, che però si era reso disponibile al prestito di tre opere di Monet di sua proprietà. Emblematicamente tutte e tre rappresentavano vedute di Argenteuil, la località sulla Senna (ad appena 15 minuti di treno dalla Gare de Saint-Lazare), dove Monet si era rifugiato a partire dal 1871, anche per ragioni di bilancio famigliare. Viene da pensare che non sia un caso. Nell’estate di quel 1874, dopo la delusione per l’esito della mostra, Manet, Renoir e Monet si erano ritrovati ad Argenteuil e avevano dato vita a una triangolazione di quadri che sembrano un’autoproclamazione della nuova pittura.

In particolare Manet aveva dipinto l’amico Claude mentre dipingeva nel suo bateau-atelier sulle acque della Senna. Il plein air, il desiderio di intercettare l’energia dell’istante, l’attrazione per il mondo moderno, la libertà dell’indefinito: ad Argenteuil l’impressionismo era orgogliosamente affermato da quei tre come un consapevole dato di fatto.