Imprese svendute, produzioni perdute
Italia Si moltiplicano le aziende manifatturiere e finanziarie oggetto di acquisizione, a volte a prezzi di saldo. Tra gli acquirenti, la Germania e la novità cinese. Con la produzione ridotta del 25% rispetto al 2008, accelera l’arrivo del capitale straniero
Italia Si moltiplicano le aziende manifatturiere e finanziarie oggetto di acquisizione, a volte a prezzi di saldo. Tra gli acquirenti, la Germania e la novità cinese. Con la produzione ridotta del 25% rispetto al 2008, accelera l’arrivo del capitale straniero
Dalla rivoluzione industriale dell’ottocento la globalizzazione dell’economia reale si è manifestata attraverso l’ininterrotta espansione del commercio mondiale a ritmi superiori a quelli della produzione. Come già rilevato dagli economisti classici, la crescita degli scambi mondiali ha costituito un forte stimolo all’aumento della produttività del lavoro e del capitale, all’innovazione di prodotto e alla specializzazione produttiva.
Fino alla fine del ventesimo secolo lo sviluppo del commercio internazionale non aveva però influito direttamente sulla proprietà del capitale, che aveva mantenuto caratteristiche prevalentemente nazionali. Quando un paese aveva minor produttività e non esportava abbastanza, il peggioramento della bilancia dei pagamenti trovava un riequilibrio attraverso svalutazioni «competitive» della moneta. Nel cammino economico degli ultimi due secoli, il capitale, lo stato e la moneta hanno quasi sempre viaggiato insieme. Ora gli «aggiustamenti» della bilancia dei pagamenti si effettuano in misura crescente attraverso flussi di capitali, sia finanziari che di investimenti diretti nell’economia reale. E sta cambiando rapidamente, in questo modo, la proprietà del capitale in tutto il mondo.
Secondo il rapporto «Italia multinazionale 2012» dell’Istituto commercio estero, alla fine del 2007 gli investimenti diretti esteri avevano raggiunto nel mondo il valore di quasi duemila miliardi di dollari, quaranta volte di più rispetto a venticinque anni prima. La loro corsa si è fermata con lo scoppio delle bolle finanziarie nel 2001 e nel 2008, ma poi è ripresa rapidamente. Si sono ampliati gli strumenti usati per gli investimenti stranieri (venture capital, Ipo, ecc) e il capitale va così perdendo il suo tradizionale ancoraggio produttivo nazionale.
Stanno cambiando di conseguenza i rapporti tra stati e capitale. Molti governi si muovono con l’idea che il paese destinatario degli investimenti diretti benefici dell’arrivo dei capitali esteri, e ci sono quindi spinte verso una competizione tra stati per offrire condizioni più favorevoli alle imprese. Tuttavia, nel lungo periodo i profitti tendono a seguire l’origine della proprietà del capitale, uscendo dai paesi e dalle imprese dove sono stati accumulati. I paesi più deboli tendono così a subire le scelte degli stati più forti e delle imprese multinazionali. Tra i paesi forti che più si sono internazionalizzati, gli Usa, un esempio viene dal governo Usa con la recente politica di incentivazione all’«insourcing» che spinge le imprese fornitrici dell’amministrazione americana a riportare nel paese produzioni che erano state delocalizzate alla ricerca di costi di produzione inferiori.
L’Italia, l’unico paese del mondo in declino da quasi un ventennio, è stata finora coinvolta meno di altri paesi: gli investimenti corrono soprattutto verso i mercati in forte crescita, non verso quelli stagnanti. Secondo «Italia multinazionale 2012», alla fine del 2011 lo stock di investimenti in entrata era pari al 15,2% del Pil, una percentuale che si è triplicata in vent’anni ma che resta pari alla metà di quella media mondiale (28,7%) e a un terzo di quella europea (43,2%). Il divario è lievemente inferiore per gli investimenti italiani all’estero, comunque superiori a quelli in arrivo (23,4% del Pil).
Con la crisi, che ha portato la produzione industriale italiana a ridursi del 25% rispetto al 2008, siamo a un’accelerazione dell’arrivo del capitale straniero: si moltiplicano le imprese manifatturiere e finanziarie oggetto di acquisizione, a volte a prezzi di saldo. Sono apparsi di recente elenchi di imprese italiane acquisite dal capitale estero, la maggior parte appartenenti ai tradizionali settori di forza del made in Italy, il lusso (Bulgari, Valentino, Loro Piana, Krizia), la manifatturiera di qualità (Avio, Edison, Ansaldo Energia, ecc), l’alimentare (Parmalat, ecc.), il design, la grande distribuzione, la finanza.
Secondo Libero (del marzo scorso) si arriva a 830 aziende tra il 2008 e oggi, per un valore superiore a 100 miliardi, un importo superiore agli investimenti italiani all’estero (340 imprese per un controvalore di 65 miliardi). Secondo i dati di ottobre dal Presidente dell’Aifi, l’associazione dell’industria del capitale privato, nel primo semestre del 2014 ci sarebbe stata un’ulteriore crescita delle acquisizioni del 34,3%, per 1,89 miliardi. Gli investimenti diretti in Italia riguardano acquisizioni di realtà produttive consolidate, con qualche possibilità di rilancio o, più spesso, di ridimensionamento; in questi casi l’occupazione e le funzioni «avanzate» (dalla finanza all’innovazione) sono le prime a essere ridimensionate. Poche le nuove iniziative produttive (i cosiddetti «greenfield») che potrebbero accrescere l’occupazione.
Gli investimenti esteri arrivano dalla Germania, che estende la sua rete produttiva a subfornitori in tutti i paesi vicini, da Usa, Francia, Gran Bretagna. La novità più importante è la Cina. A piccoli passi la Banca centrale cinese ha acquisito numerose quote di minoranza (appena superiori al 2%) in tutte le principali imprese italiane: Eni (2,102%), Enel (2,071%), Assicurazioni Generali (2,014%), Fiat Chrysler (2,001%), Telecom Italia (2,081%), Prysmian (2,018%). E’ di pochi giorni la notizia dell’acquisto di circa il 2% cento di Mediobanca, il tradizionale salotto buono degli imprenditori italiani.
Un’altra importante operazione ha riguardato, nell’autunno scorso, la più antica società elettrica cinese, Shanghai Electric, che ha acquisito da Finmeccanica e Cassa Depositi Prestiti il 40% di Ansaldo Energia. Una presenza sistematica nei centri produttivi del paese che sembra seguire una strategia precisa, e che potrebbe avere sviluppi importanti in altri casi di imprese italiane in crisi, dall’acciaio alla meccanica. L’esempio cinese, oltre a quello americano, mette in evidenza la possibilità per uno stato di definire politiche nazionali anche in un contesto di estrema mobilità dei capitali, controllandone strategie produttive, settori d’investimento, acquisizione di conoscenze, presenze sui mercati importanti. L’Italia sembra immobile, senza una discussione sulla politica industriale e senza una strategia di fronte agli investimenti stranieri.
A settembre dello scorso anno il Governo Letta aveva approvato il progetto «Destinazione Italia» che intendeva favorire «l’attrazione di capitale, finanziario ed umano, con il quale creare lavoro, sapere, e crescita per i nostri cittadini». In concreto erano definite 50 “misure finalizzate a favorire l’attrazione degli investimenti esteri e a promuovere la competitività delle imprese italiane”. Da allora non si ha notizia di alcuno sviluppo o effetto concreto. La vacuità dell’attuale governo rischia di portare l’Italia a subire in modo passivo e sostanzialmente inconsapevole le decisioni del capitale multinazionale.
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