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Import-escort, il mito della «sua» politica estera

Import-escort, il mito della «sua» politica estera

Asceso in cielo La realtà era quella di rapporti personal-familistici. Con Bush, Putin, Erdogan e Gheddafi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

Se ne è andato, nel bene e nel male, unico anche nel peggio. Che da anziano era apparso a molti persino il meno peggio. In realtà è stato il primo e più avanzato dei populisti europei, così avanti da anteporre il suoi interessi personali e delle sue aziende a quelli del Paese. Come quando decide di frammentare in sei quote le forniture di gas dell’Eni dalla Russia per favorire imprese e imprenditori amici: la sua grande amicizia con Putin – che «non è più comunista, io lo conosco bene» ripeteva – nasce da questa combinazione in cui i due erano compagni di merende, un vero e proprio sistema di import-escort. Ecco perché ieri il leader russo nel rievocarlo è apparso, per una volta, quasi commosso. Si sentivano almeno una volta al mese.

ANCHE LA VICENDA di Pratica di Mare, il vertice in cui mise insieme la Russia e la Nato, è da rivedere per ridimensionare la mitopoiesi berlusconiana. In primo luogo bisogna ricordare che Berlusconi – ferocemente anticomunista in assenza ormai di comunisti – nel suo rapporto privilegiato con Bush junior fu un sostenitore convinto delle missioni disastrose in Afghanistan 2001 – la guerra di vendetta dell’11 Settembre – e in Iraq nel 2003 in prima fila nella coalizione dei volenterosi, per niente condivisa quest’ultima dalla Russia ma anche dal centro destra europeo: la Francia di Chirac si astenne dal partecipare. C’è da chiedersi poi come i governi italiani successivi a Berlusconi abbiano potuto avallare la narrazione falsa su quelle guerre sprofondate nel dramma di centinaia di migliaia di morti e in clamorosi fallimenti.

BERLUSCONI, CHE in seguito si scontrò con Obama per le solite gaffe inopportune, era in realtà all’epoca il più filo-americano dei leader italiani come dimostrò l’invito al Congresso degli Stati Uniti per parlare addirittura in sessione plenaria. Presso i «moderati» italiani, orfani dopo tangentopoli della Dc e del partito socialista, Berlusconi si faceva scudo delle politiche mediterranee di Andreotti e Craxi, ma stando ben attento a non urtare gli americani: a differenza del leader socialista, protagonista di Sigonella, che diffidava dei rapporti dei nostri servizi («troppo legati al Mossad», diceva) e non lisciava il pelo alla leadership israeliana. Ma allora Arafat andava a pranzo da Pertini e i palestinesi non erano dei pariah come nell’Italia di oggi. Berlusconi fu invece il primo premier italiano invitato a parlare alla Knesset.

IL VERTICE di Pratica di Mare del 2002 non se lo era inventato Berlusconi: nella base dell’aeronautica militare alle porte di Roma venne stilato un documento, il “Nato-Russia Relations: A New Quality”, sugli auspici di un nuovo rapporto di fiducia tra Occidente e Russia. In questo documento Nato e Russia sottolineavano il comune rispetto degli obblighi derivanti dalla Carta dell’Onu, dall’Atto finale di Helsinki e dalla Carta per la sicurezza europea adottata sotto l’egida dell’Osce. Senza questi precedenti Pratica di Mare non sarebbe mai avvenuta: il consiglio a 20 Nato-Russia esisteva già.
E NON DIMENTICHIAMO il contesto: Putin non appariva come il leader che è oggi, la guerra al terrorismo aveva unito le potenze internazionali e gli Stati Uniti, vincitori della Guerra Fredda, oltre a giurare che la Nato non si sarebbe allargata ad est, avevano concesso alla Federazione russa una certa libertà di manovra convinti di essere ormai entrati in un mondo unipolare. Vent’anni dopo la distanza da quell’epoca è siderale. Dalla guerra in Georgia a quelle in Siria e Libia fino alla crisi ucraina del 2014, all’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina non solo lo scenario è radicalmente cambiato ma ormai il protagonismo di Cina, India e dei Brics, ci parlano di un mondo multipolare.

MA È PROPRIO LA POLITICA estera, condotta con i rapporti personali e familistici con Putin, Erdogan, Gheddafi, che dai sogni di gloria cullati con Pratica di Mare, segna il declino di Berlusconi. Oltre al rapporto personale, da padrino, con Erdogan, per lui fu fatale quello con Gheddafi con cui firmò il patto tra Roma e Tripoli su gas, migranti – sempre da respingere e detenere in campi di concentramento – e infrastrutture (un controvalore economico stimato 55 miliardi di euro, quasi due finanziarie). Per sancire l’alleanza, che allora appariva indissolubile, il 30 agosto 2010, fu inscenato a Tor di Quinto un spettacolo con caroselli di carabinieri e cavalli arabi e un seguito di 5mila tra imprenditori, uomini d’affari, politici, faccendieri e questuanti vari, tutti proni con il cappello in mano davanti al rais libico.

SEMBRAVA UN TRIONFO. Ma pochi mesi dopo con la rivolta di Bengasi Francia in primis, Usa e Gran Bretagna decidono come Nato di intervenire militarmente con i raid aerei contro Gheddafi. Berlusconi è con le spalle al muro.

La sera del 17 marzo 2011, un mese dopo l’inizio della rivolta in Libia e mentre il Consiglio di sicurezza Onu stava definendo la risoluzione 1973 che autorizzava l’intervento, al Teatro dell’Opera di Roma era in programma il Nabucco diretto da Muti per i 150 anni dell’unità d’Italia. In un vertice cui parteciparono tra gli altri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Berlusconi e il ministro della Difesa La Russa, Berlusconi pronunciò la frase: «Sull’intervento militare dell’Italia rimetto ogni decisione a lei, presidente, come capo delle forze armate». L’ex scatolone di sabbia inghiottiva miseramente le glorie del Cavaliere in politica estera.

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