Imperatore e papa, due soli indipendenti
Saggi «Lo stato in Dante» di Hans Kelsen, per Mimesis. Un lavoro giovanile del massimo filosofo del diritto del Novecento
Saggi «Lo stato in Dante» di Hans Kelsen, per Mimesis. Un lavoro giovanile del massimo filosofo del diritto del Novecento
Tra le opere meno note di Hans Kelsen, il massimo filosofo del diritto del Novecento, c’è la monografia che egli dedicò, giovanissimo, al pensiero politico dantesco, che ora Mimesis ripropone col titolo Lo Stato in Dante (pp. 220, euro 18, presentazione di Pier Giuseppe Monateri, postfazione di T ommaso Frosini). Pubblicato per la prima volta nel 1905, quando l’autore aveva solo ventiquattro anni, il libro precede, ovviamente, la elaborazione della teoria giuridica di Kelsen, che comincerà a prendere forma qualche anno dopo.
IL VOLUME DANTESCO invece, come scriveva lo stesso autore in un saggio autobiografico, richiamato nella postfazione di Frosini, è fondamentalmente un «lavoro scolastico». Data però la imponente statura intellettuale dell’autore, anche questo suo esercizio giovanile si lascia leggere ancora con profitto e con interesse. In sostanza, il volume consta di un esame accurato e analitico (nel lucido stile kelseniano) della grande opera politica di Dante, la Monarchia, che viene commentata con ricchezza di riferimenti anche al Convivio e alla Commedia. Lo stato della ricerca sulla filosofia di Dante, e su quella politica in particolare, quando Kelsen scriveva, era naturalmente assai meno sviluppato di quanto non sia oggi.
Basti ricordare, per toccare solo un punto importante, che Kelsen non vede in alcun modo l’influenza su Dante del grande pensatore arabo Averroè, sulla quale invece molto hanno insistito e dibattuto gli studi danteschi più recenti. Ma il quadro che Kelsen traccia del pensiero politico di Dante ne coglie alcuni aspetti essenziali. Per Dante l’unica forma politica razionale, adatta a costituire il contesto nel quale si possono perseguire il bene e la felicità umana, è l’Impero universale, che deve sovrastare tutte le forme politiche «locali», come i regni e le città, che possono limitarsi a svolgere funzioni minori, di tipo circoscritto e amministrativo.
Dante non si limita a vagheggiare la restaurazione di un impero universale pensato come erede di quello romano; l’aspetto più rilevante, sul quale Kelsen giustamente insiste perché segna la modernità dell’autore della Commedia, sta nel fatto che, nella disputa teorica sul ruolo e sui rapporti tra i due poteri, papale e imperiale, che nel suo tempo si contendono il campo, Dante assume una posizione decisamente radicale: il potere politico dell’Imperatore (che va inteso come una sorta di incarnazione di una civile razionalità che dovrebbe reggere il mondo) non è in alcun modo subordinato a quello del Papa, né trae da esso la sua legittimazione. Perciò, alla metafora politica dominante, che paragonava i due poteri al Sole e alla Luna, assumendo che quello papale brillasse di luce propria, e quello laico solo di luce riflessa, Dante contrappone la metafora dei due Soli, espressa plasticamente nelle terzine del sedicesimo canto del Purgatorio (versi 106 e sgg.): «Soleva Roma, che il buon mondo feo / due Soli aver, che l’una e l’altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo».
NELLA VISIONE di Dante, insomma, il potere politico e quello ecclesiastico sono rigorosamente indipendenti: l’uno deve curarsi della felicità terrena, l’altro di quella celeste. Certamente entrambi derivano dall’ordine divino del mondo, ma tutti e due lo incarnano con pari dignità, ciascuno nel suo ambito.
Se in questo libro giovanile vi è un aspetto tipicamente kelseniano, esso sta forse nella sottolineatura del ruolo del diritto, che lo porterà in prospettiva alla identificazione tra Stato e ordinamento giuridico. Anche la potenza dell’Impero, sottolinea Kelsen valorizzando questo punto dantesco, è vincolata dalla legge. E l’imperatore, lungi dall’essere titolare di un potere arbitrario, non è altro che il primo «servitore della collettività».
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