Editoriale

Immigrazione, subito un presidio della nostra Marina

La conta macabra va avanti inesorabile, ora dopo ora. Come in una tragedia classica, come in un canto popolare dei primi del Novecento («di tanta gente la misera fin/ padri […]

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 12 febbraio 2015

La conta macabra va avanti inesorabile, ora dopo ora. Come in una tragedia classica, come in un canto popolare dei primi del Novecento («di tanta gente la misera fin/ padri e madri bracciava i suoi figli/ che si sparivano tra le onde del mar») o, ancor prima, come in un fosco dramma nibelungico (dove le onde davvero sembrano raggiungere il cielo).

Ma siamo nel febbraio del 2015 e veniamo a sapere di centinaia di corpi raggelati, i nervi irrigiditi, i vasi compressi fino a spezzare il respiro e a fermare il cuore.

Un anno e mezzo fa, il 3 ottobre 2013, davanti a Lampedusa 366 morti; oggi oltre 300. E non ci si poteva aspettare niente di diverso. Sapevamo di essere in una sorta di tregua, dettata dalle condizioni meteorologiche, e che l’arrivo della primavera avrebbe portato altri naufragi. Siamo stati ottimisti e non c’è stato concesso tempo a sufficienza per preparaci ai nuovi lutti.

I quattro gommoni carichi di profughi, partiti dalle coste libiche, sono finiti da subito in balia delle onde; e i racconti dei sopravvissuti ci hanno restituito immagini di orrore.

Molte le ragioni di questa ecatombe, ma una balza agli occhi perché a lungo discussa, fatta oggetto di controversie e conflitti, sguaiatamente reclamata con argomenti indecenti e infine ottenuta. E, infatti, come non vedere il nesso tra la conclusione della missione ” Mare Nostrum” e questa ennesima strage?

É vero che “i morti ci sono stati anche durante Mare Nostrum” (Angelino Alfano), e che sono stati probabilmente molti più dei tremila stimati. Ma il problema non è la contabilità di una strage ininterrotta e difficile da disinnescare in tempi brevi: è, piuttosto, quello di un soccorso che poteva esserci e non c’è stato, di una protezione fatta mancare, di una linea di tutela della vita umana che inopinatamente – e da un giorno all’altro – si è sfaldata. O meglio: è stata semplicemente cancellata.

La decisione del governo italiano di chiudere Mare Nostrum è stata determinata in primo luogo da considerazioni di natura economica agitate particolarmente da Lega nord e Forza Italia. Si è detto e ridetto che quella missione costava troppo. Ma non mi rassegno ad accettare che la prima ed essenziale replica a una simile contestazione – qual è il prezzo di una vita umana salvata? – sia squalificata come esercizio retorico o espressione demagogica.

Si tratta, piuttosto, di qualcosa che attiene al livello di civiltà che vorremmo connotasse il nostro Paese, e alla qualità della sua vita democratica. Il valore attribuito alla vita umana rivela qual è l’idea di Stato che coltiviamo e la natura del nostro sistema di cittadinanza e il significato di categorie come quella di legame sociale e quella di identità collettiva. É umanitarismo, sì, ma come fondamento essenziale del patto costitutivo di una democrazia matura. Se, poi, guardiamo ai nudi dati, scopriremo agevolmente tutta la miseria di quella torva utopia regressiva che pretende di bloccare i movimenti di milioni di esseri umani inviando cannoniere, stendendo fili spinati e alzando muri.

Le migrazioni sono la conseguenza di processi storici ed economici antichi e di vaste dinamiche planetarie. D’altra parte è palesemente falso che Mare Nostrum abbia funzionato come fattore di attrazione, capace di incentivare l’immigrazione irregolare. Basti considerare che, nel gennaio del 2014, con Mare Nostrum a pieno regime, gli sbarcati erano stati 3.300, mentre nel gennaio del 2015, quando ormai da tempo era conclusa, sono stati 3.709. Non solo: Mare Nostrum consentiva che si realizzasse uno screening igienico-sanitario, che si vigilasse sotto il profilo della sicurezza e che si intervenisse con maggiore efficacia sugli scafisti. Di tutto ciò non resta più nulla. Triton, infatti, dev’essere considerata nient’altro che un’operazione di sorveglianza delle frontiere di Schengen, che non contempla interventi di soccorso in mare, né di assistenza umanitaria, e nemmeno di controllo sanitario e di sicurezza.

In questa situazione, gli occasionali interventi di salvataggio restano affidati ai mercantili o alle motovedette della Guardia costiera, rivelatisi del tutto inadeguati in questa circostanza, e in chissà quante altre prima. Questi mezzi, infatti, non dispongono a bordo dei dispositivi medici necessari ad assicurare interventi tempestivi ed efficaci (quali quelli contro l’ipotermia). Di fronte a uno scenario così desolato e fitto di insidie, è certamente giusto battersi per una politca europea condivisa: ma intanto facciamo la nostra parte. E subito.

Il ministro dell’Interno e il ministro della Difesa dispongano immediatamente che sia ricostituito almeno quel presidio della nostra Marina militare (una nave più altre tre di minore stazza), attivo dal primo novembre al 31 dicembre 2014. Presidio che – non è una mia ipotesi, ma la valutazione delle massime autorità della stessa Marina – avrebbe impedito, o almeno significativamente contenuto, quest’ultima tragedia.

Può sembrare un obiettivo minimo e, per molti versi lo è: ma è anche il fattore che, per molti profughi, può segnare la differenza tra la vita e la morte. Poi si provveda a tutto il resto: un’impresa enorme, considerati gli attuali rapporti di forza politici, ma che non può essere ulteriormente differita.

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