Cultura

Immersi negli abissi con mante e squali

Immersi negli abissi con mante e squaliImmagini tratte da «Sesto continente» (Folco Quilici, 1954)

Into the wild / 11 1952: la spedizione subacquea e la relazione con il «selvatico» marino. A bordo c’era anche il ventiduenne Folco Quilici, che dall’avventura avrebbe tratto un libro e un film. La missione raccolse pesci di interesse scientifico per quattro tonnellate. Poi, girando la seconda parte del documentario si pagò pegno alla produzione con una scena cruenta

Pubblicato circa un anno faEdizione del 26 agosto 2023

La spedizione subacquea nazionale nel Mar Rosso, guidata da Bruno Vailati e Francesco Baschieri Salvadori, salpò per l’Eritrea il 27 dicembre 1952. Tra i dodici a bordo c’era anche il ventiduenne Folco Quilici, che dall’avventura avrebbe tratto un libro e un film grazie ai quali possiamo oggi ricostruire con precisione quale fosse, settant’anni fa, lo stato di salute di un mare tropicale.
La missione ha raccolto pesci di interesse scientifico per quattro tonnellate, conservandone un decimo sotto alcool e formalina, oppure per essiccazione. Le casse riportate in Italia, contenenti anche trecento specie di molluschi, altrettante di echinodermi e quaranta di celenterati, furono cinquantatré. Settantamila i metri di pellicola girati, quattromila le fotografie scattate.
Sesto Continente fu presentato a Venezia nel 1954. In concorso, tra le altre opere, spiccavano Senso di Visconti, La strada di Fellini e I sette samurai di Kurosawa. Quilici non aveva nemmeno uno smoking tutto suo da indossare e ne prese uno in prestito che gli andava troppo largo. Questo però non gli impedì di strappare applausi di meraviglia: dopotutto, il suo era il primo lungometraggio subacqueo a colori nella storia del cinema documentario.

SI SAREBBE DOVUTO chiamare Squali e fu girato in due parti. La prima, dal dicembre del 1952 al maggio successivo, in Eritrea presso le isole Dahlak, affrontate sul battello Formica; la seconda, nei mesi di ottobre e novembre del 1953, tra i reef d’Egitto e del Sudan, sul Maria Gabriella. Le dodici persone a bordo non sapevano cosa aspettarsi da luoghi ancora inesplorati.
Certamente avrebbero studiato le reazioni degli squali, non appena nel proprio regno si fossero trovati di fronte a uomini che, nell’anno esatto in cui ci si attrezzava a conquistare l’Everest, si stavano facendo alpinisti degli abissi. Uomini forti e coraggiosi – questa allora la narrazione – in grado di resistere nove ore al giorno in acqua, consumando solo carne in scatola e latte condensato.
Dai primi fotogrammi, gli spettatori percepiscono il mare sommerso da un silenzio alieno, che quasi chiede di essere normalizzato dall’intelligenza sapiens, secondo un’impostazione fortemente antropocentrica in linea con quei tempi postbellici. Alla spedizione lavorano congiuntamente un gruppo sportivo e una sezione scientifica, oltre agli addetti a foto e film. Durante un allenamento a Ponza, alla telecamera vengono presentati fucili e arpioni da usare contro gli squali: «i temibili predatori dei fondali».

IL PRIMO PASSO consiste nel lasciare l’Italia, con virilità. Così Raimondo Bucher stabilisce il record di apnea, scendendo a Capri fino a 39 metri di profondità. Quindi, con altrettanta energia, si arriva nel Mar Rosso, tra le cui onde subito compaiono pescecani «il cui schiocco di coda ghiaccia il sangue nelle vene». I barracuda invece stanno al largo: sono i lupi del mare e in quanto tali attaccano in branco tutti insieme. A un certo punto, quando i sub individuano sul fondale sorgenti di gas metano, la voce narrante di Gian Gaspare Napolitano precisa che prima o poi l’uomo lavorerà sotto il mare come nei campi e nelle officine, senza dimenticare che, a causa della sovrappopolazione mondiale, «quel giorno coltiveremo le alghe sott’acqua».
Nella seconda parte del film, girata in autunno, qualcosa cambia. Forse in virtù del motivo del rientro in Africa, si affaccia nello sguardo del regista una maturità che prenderà presto il sopravvento. In un incontro svoltosi a Roma con i produttori, questi minacciarono di trasformare il documentario in un film spazzatura: l’avventura di un capo spedizione pazzo d’amore per una donna fatale che lo distoglie dai suoi doveri di scienziato, causando non importa in che modo la morte di ciascun componente della ciurma, dilaniato dalle mascelle dei mostri marini. Andrebbe bene anche un finale comico; come titolo, sarebbe perfetto qualcosa del tipo Totò tra gli squali.
Così, per salvare la propria idea con un compromesso, la troupe accettò di tornare nel Mar Rosso per girare una scena potente. Per esempio la cattura di una bestia spaventosa: la vittoria decisiva sul pesce più forte che confermi l’egemonia dell’uomo sugli animali degli abissi.

PER CONVINCERE i produttori, Vailati dovette esprimersi in questi termini: «Vorremmo dalla storia della nostra spedizione subacquea far scaturire nel film il concetto che l’uomo potrà vivere sott’acqua, lavorare, sfruttare le ricchezze del fondo del mare come se questo fosse un altro continente, il sesto».
A fine settembre, si ripartì quindi in aereo, da Roma. Un atteggiamento ingenuamente predatorio è nel programma degli spedizionieri. Ciononostante, il susseguirsi dei fotogrammi precipita verso un crescendo parossistico caricato sul punto di non ritorno triste, solitario e finale di un gesto feroce che, compiendo la dichiarazione di intenti pronunciata da Vailati, renderà possibile per eterogenesi dei fini la sua catarsi. Soprattutto in Quilici, che ora non deve più scoprire nulla, fa breccia una dirompente dissonanza cognitiva: il Mar Rosso e la sua natura sono amici ritrovati, non esseri da sottomettere.

IL MARE E I SUOI ABITANTI appaiono, ormai, trasfigurati. È questo il caso dei pescatori di perle, che scendono giù a tentoni perché il sale del mare brucia le cornee e la pressione rompe i timpani: «uomini di trent’anni che sembrava ne avessero settanta, angeli neri che precipitavano dal loro cielo d’acqua, figure di un affresco mai dipinto». La compassione è tale che vengono loro donate due apparecchiature complete per immersioni in apnea, con la speranza che il progresso si apra una via. Per compensare gli italiani, il capo dei pescatori fornisce le indicazioni per raggiungere una zona pescosissima incassata tra i bassifondi e quindi inaccessibile alle navi. Quilici ci arriva a inizio novembre, dopo aver oltrepassando un cimitero prigioniero di una terra secca e maledetta, disseminata di lapidi invase dai varani. È qui, oltre le lapidi, il mare chiuso di Sanganeb, vicino a Omm el Kurush, in Sudan.
Sulle sue acque brulicano i dorsi di bestie misteriose. È l’atto definitivo dell’ultimo scontro, «come accade ai toreri», però non se ne ha voglia. Ma poi, avvolta dalla foschia del plancton, fa la sua apparizione simile a una nave fantasma la manta gigante: Mala Kebír, il «grande diavolo» che, anche quando agganciato, ha ancora «la forza di portare tutti alla malora». Pesa mezza tonnellata e la sua apertura alare supera i tre metri, eppure somiglia a una creatura preraffaellita anche mentre perde sangue e sbanda come un aereo tra le fiamme. È Bucher a finirla, affrontandola a coltellate. In realtà, scriverà Quilici, «era un animale innocuo, addirittura giocherellone».

DI QUELL’ERRORE, pegno da pagare alle richieste dei produttori, il regista avrebbe sempre sofferto il ricordo. Da quel dolore, con la collaborazione di Italo Calvino che ne scrisse la sceneggiatura, nemmeno dieci anni dopo sarebbe scaturita la delicatezza di Ti-Koyo e il suo pescecane, una favola polinesiana che racconta dell’amicizia tra un bimbo e uno squalo, profeti di un Eden già aggredito dalla violenza della chimica, del denaro, del turismo.

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