Immergersi a distanza in un libro lascia spazio alla meraviglia
Storia della cultura Cinque lezioni a nutrimento della missione intellettuale, che l’Università ha svenduto ai suoi sogni finanziari: da Whitman a Baudelaire, dal western al noir, da Miller a Brecht... «Un paese lontano»
Storia della cultura Cinque lezioni a nutrimento della missione intellettuale, che l’Università ha svenduto ai suoi sogni finanziari: da Whitman a Baudelaire, dal western al noir, da Miller a Brecht... «Un paese lontano»
Dall’Italia all’America e ritorno: nell’introduzione a Un paese lontano (Einaudi, pp.168, euro 19,00) Franco Moretti si propone di colmare la distanza temporale e spaziale che separa l’università di Salerno – dove nel 1979 tenne il suo primo corso di letteratura (in cappotto, perché non funzionava il riscaldamento) – da quella di Stanford, in California, «l’università privata più ricca del mondo», dove dal 2000 ha insegnato letteratura comparata fondando anche il Centro studi sul romanzo e lo Stanford Literary Lab (un laboratorio di ricerca che applica la critica computazionale allo studio della letteratura).
A collegare queste due esperienze, apparentemente lontanissime, è la necessità prioritaria di ogni buon docente: far appassionare alla letteratura gli studenti, quelli intirizziti della Salerno di fine anni Settanta – che investivano nell’università come in un lusso e in una promessa di mobilità sociale – quanto quelli agiati di Stanford, ormai trasformati dalle logiche finanziarie degli atenei americani (e non) in «consumatori» di sapere.
Fertili idiosincrasie
Un compito non certo facile, ma svolto egregiamente in questo libro che raccoglie cinque saggi brevi sulla letteratura e la cultura americana basati su un ciclo di lezioni tenute da Moretti, che mettendo la sua esperienza di docente al servizio della chiarezza espositiva offre «cinque pezzi facili» rivolti al lettore desideroso di esplorare da un punto di vista inedito alcuni aspetti di quel «paese lontano».
In realtà, la lontananza menzionata nel titolo non allude solo al proverbiale transatlantic divide, né alla distanza critica necessaria all’analisi letteraria: rimanda soprattutto alla pratica del «distant reading», il metodo di studio proposto da Moretti in La letteratura vista da lontano (2005) come alternativa alla lettura ravvicinata del testo (il cosiddetto «close reading»). Sostituendo il binocolo alla lente d’ingrandimento, Moretti ha dimostrato che la distanza dall’oggetto analizzato non rappresenta necessariamente «un ostacolo alla conoscenza, bensì una sua forma specifica»: attraverso «un processo di deliberata riduzione e astrazione» del campo letterario emergono infatti «i rapporti, i pattern, le forme» tra famiglie di testi, che permettono di comprendere meglio nella sua interezza un sistema complesso come il romanzo; senza più la necessità di limitare l’analisi letteraria a un numero ristretto di opere canoniche, e con l’ausilio di strumenti computazionali, il «Literary Lab» ha reso possibile analizzare una mole elevatissima di dati da cui trarre singolari spunti per ricerche future.
Il «distant reading» permette inoltre un punto di vista dislocato, utile per analizzare l’oggetto-testo da prospettive inedite e per fornire altre chances alla ricerca, favorendo al tempo stesso i processi di apprendimento e divulgazione.
Mentre somma al suo speciale acume critico quel gusto per la provocazione che è noto ai suoi lettori («Sappiamo come leggere i testi, ora impariamo come non leggerli» propone in Distant Reading, uscito nel 2013 e ancora inedito in Italia), Moretti accosta temi, generi e autori tenuti solitamente a distanza tra loro per tracciare un percorso zigzagante e irregolare, oltre che assolutamente idiosincratico, nella cultura americana tra Otto e Novecento.
Due generi opposti
La struttura a specchio del libro fa sì che ogni autore dialoghi con una possibile «nemesi» – Baudelaire e Whitman, Hemingway e Joyce, Hopper e Vermeer – mentre ogni forma trova la propria antitesi in un andamento contrappuntistico che raggiunge l’apice nel capitolo dedicato al Western e al Noir, «due forme gemelle, in cui tutto è rovesciato: ambientazione, ritmo, personaggi, lingua, intreccio».
Pur essendosi sviluppati entrambi a partire dagli anni Trenta, nella trattazione di Moretti i due generi figurano come diametralmente opposti: l’uno, il Western, è «innamorato dello spazio», della luce e dei piani a tutto campo che giganteggiano sugli esseri umani intenti ad attraversarlo, esplorarlo, conquistarlo; l’altro, il Noir, costruito sin dal nome come genere notturno, è popolato da ombre che «alterano la nostra percezione del mondo mostrandoci ogni cosa – luoghi, corpi, oggetti, volti – in una luce fosca ed equivoca». Le molteplici contrapposizioni sottolineate dall’autore rispecchiano due diverse logiche della società civile: se nel Western «uccidere ha un che di definitivo», perché in assenza di uno stato «legale» resta l’unico modo per risolvere il conflitto, nel Noir l’omicidio «è solo il primo passo di una serie infinita di mosse e contromosse dettate dall’interesse del momento». Alla logica binaria del duello sotto il sole di mezzogiorno si sostituisce quindi il triangolo notturno del tradimento e dell’adulterio, in cui «il terzo» è sempre più ridotto a mezzo per ottenere un fine, dato che «usare gli altri è molto meglio che eliminarli». Da qui alla schiacciante «logica culturale del tardo capitalismo», teorizzata da Fredric Jameson nella sua analisi del postmoderno, il passo è breve.
La lettura di Un paese lontano rende evidente come Moretti non abbia mai smesso di porsi grandi domande: già nell’Atlante del romanzo europeo (Einaudi 1997) si proponeva l’ambizioso compito di tracciare una carta geografica della letteratura in grado di far emergere aspetti altrimenti nascosti del vasto e multiforme campo letterario. Atlanti, mappe, grafici della storia quantitativa, alberi della teoria dell’evoluzione sono solo alcuni degli strumenti impiegati da Moretti, nel corso degli anni, per avvicinare la storia letteraria alle scienze naturali e sociali, nel tentativo di restituire alle discipline umanistiche quel fascino della scoperta che in tempi recenti sembrerebbe venuto meno. Non è certamente un caso che la prima delle molte immagini contenute in Un paese lontano corrisponda allo schema abbozzato dall’autore per una delle sue lezioni – una cartografia cognitiva che ricorda la mappa di un esploratore in terra incognita, un palinsesto «composto da una decina di blocchi concettuali» che in classe potevano di volta in volta allargarsi, rimpicciolirsi o persino sparire del tutto per adattarsi al ritmo e all’ispirazione del momento.
Il ritmo della scrittura
Del resto, che Moretti presti un’attenzione particolare anche al ritmo della scrittura è confermato dalla scelta di procedere attraverso paragrafi brevi, concisi, ognuno con un suo titolo esplicativo, come a darci l’impressione, appunto, di assistere a una lezione in classe. Del resto, elevare la chiarezza a valore assoluto rientra in quell’idea di «democratizzazione della cultura» che l’autore ha ereditato dal marxismo critico degli anni Sessanta-Settanta, in aperto contrasto con l’esposizione programmaticamente autoreferenziale incoraggiata da alcune scuole di teoria letteraria. Soprattutto in una contingenza storica come la nostra, in cui, per dirla con Moretti, «l’università ha realizzato i suoi sogni finanziari, e tradito la sua missione intellettuale», queste raffinate cinque «lezioni americane» meritano di uscire dalle aule accademiche per arrivare lontano.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento