Immergendosi in un «trip astratto» ai confini del corpo
Arti digitali Intervista a Leon Rogissart e Paul Boereboom sul loro progetto ibrido «Ascension Vr». Dall'11 al 13 ottobre a Romaeuropa festival, nell'ambito di Digitalive. "La realtà virtuale non è per tutti, ma sta trovando sempre più applicazioni come terapia alternativa per diversi disturbi mentali"
Arti digitali Intervista a Leon Rogissart e Paul Boereboom sul loro progetto ibrido «Ascension Vr». Dall'11 al 13 ottobre a Romaeuropa festival, nell'ambito di Digitalive. "La realtà virtuale non è per tutti, ma sta trovando sempre più applicazioni come terapia alternativa per diversi disturbi mentali"
«Si tratta di portare il pubblico in un altro stato mentale, che alcuni definirebbero non cosciente, per altri sarebbe forse una fase del sonno. Entrare nella Vr significa accedere a un altro mondo». Così Leon Rogissart, regista teatrale belga classe 1995, racconta Ascension Vr, il progetto di realtà virtuale in programma da venerdì a domenica a Romaeuropa festival nell’ambito della sezione Digitalive, dedicata alle arti digitali. Rogissart ha dato vita alla sua creazione, un ibrido tra virtual reality e spettacolo musicale dal vivo – a cantare la giovane soprano Marie van Luijk e il controtenore Arturo Den Hartog -, insieme allo scenografo olandese Paul Boereboom. L’ispirazione iniziale viene dalla vasca di deprivazione sensoriale, strumento inventato alla fine degli anni ’50 in cui, grazie alla grande quantità di sale, il corpo galleggia e non si percepisce più il peso. Abbiamo intervistato Rogissart e Boereboom, entrambi provenienti da una formazione teatrale, per approfondire il tema della tecnologia nelle arti della scena.
Il vostro lavoro cerca di ricreare una disconnessione mente-corpo, possibilità già insita nella realtà virtuale. Vedete dei rischi in questo processo?
Paul Boereboom: La Vr non è per tutti: è sconsigliata a chi soffre di claustrofobia, ad esempio. Ma è anche vero che trova sempre più applicazioni come medicina alternativa per diversi disturbi mentali. Inoltre, allarga le nostre capacità percettive: alcuni spettatori di un progetto di realtà virtuale ambientato in Antartica hanno visto scendere la propria temperatura corporea, perché il fisico viene «ingannato» e pensa di trovarsi in un luogo freddo. Su questa strada si può andare lontano: ci sono numerose forme di terapia in cui si rimette in scena un trauma, ad esempio. Tutto quindi dipende dall’uso che se ne fa. Noi incorporiamo nel lavoro un monitor con la frequenza cardiaca di chi osserva, ragion per cui ciò che si vede nei visori è guidato dalle proprie pulsazioni. È una sorta di loop: i visuals reagiscono al corpo dello spettatore, il quale reagisce a ciò che vede.
Entrambi provenite da una formazione teatrale. Com’è stato portare le vostre conoscenze nell’ambito della Vr? Come cambia il ruolo del pubblico?
Leon Rogissart: Sicuramente lo spettatore della Vr è più vulnerabile perché qualcuno dall’esterno può osservarlo, mentre lui o lei stai guardando qualcos’altro, senza percepire il mondo reale. Provenendo dal teatro, il nostro scopo non era creare un film multi-dimensionale ma piuttosto un’esperienza completa. Ci sono approcci diversi infatti tra chi si accosta alla Vr da studi di cinema o di teatro. All’inizio avevamo pensato il progetto per uno spettatore singolo, ma quando poi lo abbiamo provato con più persone contemporaneamente, abbiamo visto come il pubblico tendesse a rimanere seduto confrontandosi per una decina di minuti, come se fossero necessari per «tornare alla realtà». Abbiamo così lasciato questo tempo come una cura gentile, guidata dai cantanti che eseguono i brani dal vivo. Se pensiamo all’esperienza di Ascension Vr come ad un trip piuttosto astratto, c’era bisogno di un elemento a cui afferrarsi e la voce umana era ciò che poteva creare il giusto equilibrio.
Quali sono le sfide per il futuro della Vr?
P.B.: Ho visto lavori avanzatissimi da un punto di vista tecnologico, che però non mi hanno minimamente toccato emotivamente. Il punto è sempre ciò che si vuole comunicare. Mi sono avvicinato alla creazione digitale perché ci siamo laureati durante l’epidemia di Covid, in quel momento le arti digitali hanno avuto un boom. Sto ancora imparando, ma per me da un punto di vista visivo il lavoro è più interessante se non è perfetto, se conserva un lato artigianale. Per questo abbiamo deciso di fare delle riprese piuttosto che creare tutto con la computer grafica.
Essendo molto giovani, vi trovate in una posizione migliore per esplorare le possibilità della realtà virtuale?
L.R.: Dipende, la Vr è stata inventata negli anni ’60 ma allora non funzionava, ci hanno riprovato nei ’90 ma era ancora difficile, sicuramente oggi con le sue applicazioni viene studiata in maniera più estesa ma ci sono anche artisti anziani che la praticano.
P.B.: Noi abbiamo spesso a che fare con l’opera, che è un mondo piuttosto gerarchico e forse un modo di lavorare in teatro un po’ all’antica. Nella Vr c’è una struttura molto diversa che rispecchia un cambiamento in corso. Nel prossimo lavoro, che dovrebbe debuttare nella primavera del 2025, proveremo a digitalizzare uno spettacolo teatrale, cercando un linguaggio per tradurlo in un progetto di realtà estesa e aumentata. Bisogna essere necessariamente creativi e lasciarsi guidare dall’intuizione.
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