Visioni

Immanuel Wilkins, suono e memoria storica

Immanuel Wilkins al Victoria Jazz festival (Vitoria, Basque Country) in Spagna nel 2023Immanuel Wilkins al Victoria Jazz festival (Vitoria, Basque Country) in Spagna nel 2023 – EPA /David Aguilar, Ansa

Musica Lo splendido concerto dell’altosassofonista afroamericano alla Casa del Jazz che ha ospitato anche il live set di Tomas Fujiwar e il suo Poets trio

Pubblicato circa un mese faEdizione del 8 ottobre 2024

Il suono, il suono. A 27 anni l’altosassofonista afroamericano Immanuel Wilkins ha una splendida sonorità tutta sua, che resta impressa e svela personalità e ricerca, originalità e memoria storica. Nel bis concesso in coda al concerto romano alla Casa del Jazz (domani 8 sarà al Blue Note di Milano) sax alto e pianoforte, quello di Micah Thomas, hanno duettato su una melodia struggente. Wilkins ha prodotto un suono flautistico, intriso di soffiato e vibrato (un po’ alla Ben Wbster) del tutto non boppistico, un sound che – specialmente in fiato continuo e a volume ridotto – ha intrecciato echi etnici e Lee Konitz, Ambrose Akinmusire (trombettista suo mentore) e un dijeridoo.

Attenzione, però: l’altosassofonista fa corpo unico con un gruppo di jazzisti coetanei che suonano insieme da molti anni: oltre al pianista Thomas, essenziale nel suo linguaggio scevro da pattern, il contrabbassista di talento Rick Rosato e il batterista estroverso e creativamente imprevedibile Kweku Sumbry.

Sono al terzo disco, “Blues Blood” in uscita per Blue Note, materia dei recital italiani. Immanuel Wilkins è cresciuto in un sobborgo di Philadelphia, ha studiato alla Juilliard School a New York e si è inserito nella scena jazz attraverso Akinmusire, Jason Moran e Joel Ross. Nel ‘23 ha stravinto al referendum di “Down beat” (miglior sax alto nonché compositore e gruppo emergente).

Del resto basta ascoltare come ha lavorato sul blues nel live romano: schema e stereotipi vengono presto abbandonati ma senza recidere il “legame di sangue” con il blues; oltre all’empatico e sofferto lirismo del sax, è spiazzante l’assolo di batteria come quello di piano, fitto di accordi ribattuti, clusters, passaggi dissonanti a mani parallele.

SUONI INDIVIDUALI e sound di gruppo anche per il Tomas Fujiwara’s 7 Poets Trio, ancora alla Casa del Jazz. Il 47enne batterista-compositore ha un’ampia esperienza maturata al fianco di John Zorn, Anthony Braxton, Michael Formanek, Mary Halvorson e Matana Roberts ed è una presenza importante nella scena newyorkese.

Ha guidato varie e originali formazioni (Triple Double, The Hook Up…) e nel 2018 ha creato un trio con la violoncellista Tomeka Reid e la vibrafonista, davvero straordinaria, Patricia Brennan. Nell’album inciso per la Rogue Art (2019), il batterista spiegava di aver scritto avendo in mente il suono e la personalità delle sue partner e tenendo presenti le possibilità sonore di una strumentazione unica.

Il recital romano ha evidenziato proprio l’incontro tra una scrittura jazzistico-contemporanea originale e le qualità esecutivo-improvvisative di tutto il trio ma in particolare della Brennan. Il suo solo sul bis conclusivo è stato davvero innovativo, appassionato e trascinante, a partire da un delizioso tema per violoncello con archetto ed arpeggio di vibrafono. Il tutto guidato con sapienza da un Fujiwara sempre misurato ma impeccabile nella dimensione cameristico-jazzistica.

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