Thomas De Quincey (1785-1859) pubblica nel febbraio del 1827 sul «Blackwood’s Magazine» The Last Days of Immanuel Kant. È un ripercorrere gli anni estremi e gli ultimi giorni del filosofo quali furono descritti da Ehregott Andreas Christoph Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg, nella memoria Immanuel Kant negli ultimi anni della sua vita. Contributo alla conoscenza del suo carattere e della sua vita casalinga in base a quotidiani incontri con lui che il diacono dà alle stampe nel 1804, a pochi mesi di distanza da quel 12 febbraio che fu il giorno della morte di Kant, due mesi avanti di compiere il suo ottantesimo compleanno. Wasianski curava, da vent’anni, la casa e il patrimonio del filosofo. Dalle pagine di Wasianski, trascrivendo, citando, montando, De Quincey cava una narrazione che è più di un rifacimento e meno di una manipolazione. Lo scrittore inglese, celebre per il suo Confessioni di un oppiomane (Confessions of an English Opium Eather apparso nel 1821, compiuto nel 1822 e ristampato nel 1856) diresti che mette a parte il suo lettore indicando, passo dopo passo, quanto lo colpisce, ora sottolineando e ora combinando questo o quel brano del meticoloso resoconto del diacono di Königsberg, steso allorché assiste il filosofo negli anni di decadenza fisica e intellettuale, fino alla morte.
Riporto quanto Eugenio Garin scrive della testimonianza biografica su Kant che Wasianski ci ha lasciato: «In uno stile disadorno, a volte quasi con i modi di una relazione clinica, il Wasianski segue in tutte le sue tappe la dissoluzione di un corpo e l’ottenebrarsi di una mente. Al lettore non risparmia nulla delle debolezze e delle miserie, quali si possono svelare, volta a volta, all’infermiere più ancora che al medico o al sacerdote. Non può dirsi che vi sia compiacimento; ma una sorta di costante memento mortis sì. E più ancora che richiamo alla morte» distingue Garin, c’è «insistenza sulla fragilità dell’uomo, e voluta contrapposizione all’orgoglio del pensiero umano di quel disfarsi, non tanto di un corpo, quanto di un’intelligenza».
Si può facilmente convenire che è questa peculiarità della memoria di Wasianski che attrae De Quincey. Egli stando accosto, per dir così, al diacono, entra con lui in casa di Kant e con gli occhi di lui osserva il filosofo; poi ne ascolta la voce, ne constata fragilità e piccole manie, ne riconosce tuttavia i gusti e le predilezioni mentre constata, in particolare, il diradarsi e poi lo spegnersi delle occasioni conviviali tanto amate da Kant.
Si sa che Kant, fin dalla giovinezza, si atteneva ad una inflessibile regola quotidiana che si era dato. Racconta un suo scolaro, Reinhold Bernhard Jachmann nel suo Immanuel Kant descritto in lettere a un amico pubblicato nell’anno 1800, che Kant dormiva sette ore, in una camera non riscaldata, con una coperta leggera, dalle dieci di sera alle cinque del mattino. Lavorava fino a mezzogiorno. Mangiava una sola volta, a mezzodì. Il cibo preferito era forse il baccalà e gli piaceva molto il formaggio e, tra i vini, per lo più rossi e leggeri, prediligeva il Médoc. Non beveva birra e molto gradiva il caffè. Durante il giorno non prendeva nulla, tranne acqua.
Suo piacere speciale era invitare a pranzo, e assai frequentemente, conoscenti ed amici ad una tavola che accoglieva, volta a volta, convitati nel numero di tre (compreso Kant) quante sono le Grazie, e non superiore ai nove, quante sono le Muse. Con i pranzi era il piacere della conversazione, «essi duravano sino a tre o quattro ore» nota De Quincey. Wasianski rammenta che «non c’era amico di Kant che non considerasse il giorno in cui avrebbe pranzato con lui come un giorno di festa».
E non manca di ricordare che, nella dimensione conviviale, la conversazione di Kant era improntata ad uno stile «familiare al più alto grado e non scolastico, a tal punto che un qualsiasi estraneo, che avesse una qualche conoscenza delle sue opere, ma non della sua persona, avrebbe trovato difficile credere che in questo amabile e cordiale compagno si trovava di fronte il profondo autore della Filosofia Trascendentale».
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