Alias

Immagini instabili come l’acqua

Immagini instabili come l’acquaKenta Cobayashi, «Pugment» – Courtesy Metronom, Modena

Intervista Il giovane fotografo giapponese Kenta Cobayashi spiega il suo lavoro «Photographic Universe», presentato al festival della Fotografia Europea di Reggio Emilia

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 aprile 2019

Sembra di entrare in un giardino zen ipertecnologico dove colori e suoni amplificano la dimensione meditativa del luogo: riflettere e, in un certo senso, meditare è anche l’approccio con cui il giovane fotografo giapponese Kenta Cobayashi (Kanagawa, 1992) ha realizzato il suo Photographic Universe.
La mostra, curata da Francesco Zanot, nei bellissimi Chiostri di San Pietro, appena riaperti dopo i restauri, fa parte della XIV edizione di Fotografia Europea dal titolo Legami. Intimità, relazioni, nuovi mondi (fino al 9 giugno). Il concetto di immanenza, in particolare, è esplorato da Cobayashi, utilizzando sia la fotografia che il video, attraverso la metafora dell’acqua e del suo scorrere che egli propone come una texture di linee ondulate, elemento predominante delle sue immagini distorte. «Desidero continuare con le fotografie digitali dai colori forti – afferma – ma mi sto concentrando anche sul valore della tradizione giapponese che dà rilievo alla filosofia del wabisabi, ossia qualcosa di semplice, non vistoso, profondo».

In «Photographic Universe» che riflette una visione della fotografia concepita come «dispositivo che produce immagini instabili e mutevoli», è sottintesa anche una metafora della vita con le sue imprevedibilità?
Esattamente, è proprio così. La visione della vita di una persona riguarda anche l’universo. Photographic Universe rappresenta una teoria che è stata la mia fonte di ispirazione. La vita cambia sempre, non è mai la stessa. L’esperienza del mutamento non riguarda solo gli esseri umani, anche il rapporto tra gli individui stessi e l’universo. Le mie immagini esprimono questa metamorfosi. C’è chi lo fa attraverso la scienza o l’analisi dei dati. Si ha quasi paura di avvicinarsi a tali tematiche senza essere sostenuti da una sapienza specifica. Io ho voluto farlo con le mie fotografie e la mia sensibilità. Arte e scienza sono così congiunte.

Kenta Cobayashi. Foto di Manuela de Leonardis

In particolare, in questo suo «viaggio all’interno della fotografia», sembra che il fluire di spazio/tempo riproduca il movimento dell’acqua e, all’opposto, il ritmo frenetico della quotidianità di una metropoli come Tokyo dove lei ha vissuto. È così o ci sono altre referenze?
Definire lo spazio e il tempo è compito di tutti i fotografi: se il tempo si ferma oppure no; se lo spazio è quello o diventa più grande. Per me tutto ciò è come un flusso d’acqua. Vorrei mostrare che ogni cosa è come acqua che muta, ma per esprimere quello che penso devo fermare, bloccare proprio il tempo e lo spazio.

Nel 2015 lei si è laureato in pittura alla Tokyo Zokei University. Quali sono state le esperienze più significative?
Nel mio percorso, da quando mi sono laureato, ho sempre avuto la fortuna di avere molti compagni. Da studente vivevo in una casa, nel centro di Tokyo (città in continua trasformazione, un palinsesto instabile), con quaranta persone. Ora, mi sono trasferito fuori dalla capitale, in una casa con il tatami sul pavimento dove ho potuto tornare alle radici della tradizione giapponese. Vivere con altri – musicisti, grafici – è stato un banco di prova per la sinergia.

La manipolazione digitale riguarda solo fotografie scattate o anche immagini prese in rete, «in prestito»?
Sono tutte fotografie scattate da me. Ritengo imprescindibile e fondativo l’atto stesso dello scattare.

Il colore appare come diluito nel segno grafico: qual è il suo significato nella destrutturazione dell’immagine che, distorta, è spesso riproposta in maniera speculare e con supporti dalle forme irregolari?
È semplicemente la mia poetica. Intervengo sulle fotografie digitali. I colori sono più vividi e più brillanti di quelli naturali. Possono forse sembrare esagerati ma, come spiegavo, rappresentano il mio modo di lavorare, la mia peculiarità.

Da «digital native» pensa che il digitale permetta di affrontare con più libertà il rapporto realtà/finzione proponendo un mondo parallelo vicino al cyberspazio?
Essere digital native, certamente, mi permette di avere la capacità di analizzare tutto ciò che mi circonda. Ma ci tengo a sottolineare che anche la generazione a cui appartengo non è ossessionata solo dal mondo super moderno, apprezza la tradizione.

Qual è il rapporto tra immagine e suono nei suoi video? Compone anche le musiche elettroniche?
La musica è composta da un mio amico e collaboratore. Personalmente non sono in grado di comporre brani musicali, ma ne ho bisogno. Un quadro o una scultura sono completi di per sé, mentre nelle mie fotografie c’è un certo ritmo musicale che va ritrovato. Anche in base a come vengono esposte, è come se sprigionassero una loro melodia.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento