I migranti e il sentimento dell’esilio attraversa Transit(s): Our Traces, Our Ruin (2016) in cui Bani Khoshnoudi, artista e regista iraniana, si interroga sui movimenti migratori e sulle reazioni che provocano. Così come Ursula Biemann in Sahara Chronicle (2006-2009) realizzato nel corso di diversi viaggi dell’artista in Africa disegnando un’altra geografia lungo i flussi migratori. O Maria Kourkouta e Niki Giannari in Spectres are haunting Europe (2016), la rotta» balcanica e il campo profughi di Idomeni in Grecia. E ancora A New Discovery: Queer Immigration in Perspective, realizzato da Queerocracy in collaborazione con l’artista Carlos Motta, che esplora le proteste degli immigrati queer negli Stati Uniti. Sono alcuni frammenti del Disobedience Archive costruito negli anni da Marco Scotini come un archivio in movimento, che si apre cioè nel tempo a nuove piste e possibilità, e che è ora allestito su 40 monitor alle Corderie all’interno della Biennale arte.

Nato come spiega lo stesso Scotini nelle note introduttive in forma di «archivio video multifase, mobile e in continua evoluzione incentrato sul rapporto tra pratiche artistiche e azione politica» in questa costante ridefinizione di sé è vivo, vitale, interroga il suo tempo, rimanda a esso e compie un costante mutamento di prospettiva. Questo archivio si fa storia e illumina in profondità le crepe del reale a partire da forme che resistono, che lottano contro i poteri e i pregiudizi, che dichiarano la necessità di ribellione, di disobbedienza civile nei diversi modi di abitare il pianeta.

LE DUE MACROSEZIONI che lo organizzano, Diaspora Activism e Gender Disobedience sono unite in questo essere archeologia del presente, strumento e luogo nel quale riscrivere una diversa narrazione collettiva – e dunque anche degli immaginari che la fondano – e al tempo stesso col quale illuminare la contemporaneità nelle sue fratture.
Che ci dicono dunque questo archivio e le artiste e gli artisti che vi sono parte, cosa interroga? Sfuggendo per definizione allo schema di un «catalogo»- il Disobedience Archive cambia anche a partire dallo spazio che lo ospita – afferma l’azione politica dell’archivio a differenza di un suo uso oggi un po’ più accattivante, portando dentro questa piazza collettiva il gesto della protesta, in un confronto con le immagini e la loro natura oggi più che mai fondamentale.