«In Italia sono oltre 700 mila le aziende che rischiano di essere travolte dalla proposta di regolamento europeo sulla gestione degli imballaggi che la Commissione dovrà presentare prossimamente. Un nuovo regolamento, già abbozzato a Bruxelles, che gela la strategia del riciclo degli imballaggi per puntare sul riutilizzo. È allarme generale nell’industria e nel settore dei servizi in Italia. Il cambio di strategia infatti colpisce il sistema Paese che proprio nell’industria del riciclo ha un primato europeo. Tra produttori, utilizzatori industriali e commercianti la svolta europea ha infatti un possibile impatto su 6,3 milioni di dipendenti e su un mondo produttivo che fattura 1.850 miliardi di euro».

È QUESTO L’INCIPIT di un articolo apparso il 30 ottobre scorso su il Sole 24 Ore a firma di Sara Deganello, col titolo Imballaggi, la svolta Ue mette a rischio 6 milioni di occupati. E così ci risiamo. Ancora una volta il ricatto: o difesa dell’ambiente o lavoro. Taranto docet, ma non solo. Eppure non può essere sfuggito che l’Italia, in qualità di stato membro dell’Unione europea, ha approvato ed è tenuta a mettere in atto il Green Deal Europeo – approvato definitivamente nel dicembre del 2019, dopo anni di dibattiti e confronti con gli interlocutori politici e industriali – che si fonda su alcuni pilastri, di cui uno è «mobilitare l’industria per un’economia pulita e circolare».

RIGUARDO A QUESTO PILASTRO, la Commissione europea ha adottato nel marzo del 2020 il piano d’azione per l’economia circolare (anche questo dopo anni di dibattiti e confronti con le industrie dei settori interessati), che prevede azioni legislative volte a rendere i prodotti il più possibile durevoli, riparabili, riusabili, rifabbricabili, rigenerabili e infine riciclabili, al fine di minimizzare la quantità di rifiuti prodotti che entrano in circolo nel sistema economico. Cioè, quindi, minimizzare anche la quantità di rifiuti da riciclare.

IL SISTEMA INDUSTRIALE E LE FORZE politiche sapevano quindi da anni che si stava andando verso la direzione della minimizzazione del rifiuto, sia esso da riciclare o da smaltire. Tutto ciò progressivamente rinforzato e sostenuto da azioni legislative e normative europee già in atto o in via di approvazione, quali il «diritto alla riparazione», l’obbligo del deposito su cauzione (che permette di riusare i contenitori invece di riciclarli o mandarli a discarica), le misure che favoriscono il noleggio e lo scambio dei prodotti, gli incentivi alla vendita dei quelli sfusi, privi di imballaggi, eccetera. Per non parlare della proibizione di tutta una serie di prodotti di plastica usa-e-getta, proibizione che abbiamo cercato furbescamente di ignorare, e ora paghiamo le sanzioni. Come se segnali (e obblighi di legge) non bastassero, l’industria dei prodotti di largo consumo comincia a mostrare segni della intenzione di modificare la sua linea politica, per adeguarsi all’idea di dover produrre di meno, ma meglio.

E COSÌ – PER ESEMPIO – ABBIAMO ZARA, H&M, Balenciaga e Jimmy Choo, Valentino, Gucci, Levi’s, Burberry e tanti altri che cominciano ad allinearsi a precursori quali Patagonia, invitando i consumatori a restituire un bene, in questo caso un indumento, una volta che non viene più utilizzato o rischia di essere smaltito. In questo modo l’oggetto viene sottratto alla discarica e la sua vita si allunga (nel caso delle riparazioni) o si rinnova (nel caso della rivendita o del riuso della materia prima). Per molti di questi, sia chiaro, si tratta di puro greenwashing, ma anche di questo si sta occupando la Commissione Europea, per prevenirlo attraverso opportuni provvedimenti, e presto sarà difficile continuare a farlo.

INSOMMA, PUNTARE SU UN FUTURO in cui ci saranno sempre più rifiuti da riciclare è un folle anacronismo, un enorme errore strategico, perché la quantità di rifiuti prodotti è destinata a diminuire. Eppure è quello che l’industria italiana del riciclo sta facendo, costringendo i vari governi, con la solita pratica del ricatto dei posti di lavoro persi, a rallentare o bloccare la transizione dalla attuale economia lineare all’economia circolare, contestando le decisioni dell’Europa e tagliando fuori il paese da un processo irreversibile a cui invece tutti gli altri si stanno adeguando.

E POI LA PERDITA DI POSTI DI LAVORO non c’è perché se ne creano altrettanti, se non di più. Siamo certi che se invece di rifondere la bottiglia di vetro per farne una nuova (con tutta l’energia che ci vuole) la laviamo e la riempiamo di nuovo (con molto meno energia richiesta, rispetto alla fusione) si perdono posti di lavoro? Siamo certi che se invece di riciclare l’imballaggio lo riusiamo più volte questo fa perdere posti di lavoro, considerato il processo raccolta-invio a un centro di controllo e lavaggio-distribuzione dell’imballaggio? E di esempi di questo tipo se ne possono fare tantissimi.

In genere, si può dire che le pratiche di riuso, rivendita, noleggio, riparazione, rigenerazione implicano una significativa crescita dell’occupazione, rispetto al riciclo del prodotto dopo il primo breve – spesso unico – uso, come indicato in numerosi documenti prodotti dalla Commissione europea. E allora attenzione, non lasciamoci condizionare da pur comprensibili interessi di parte. Un governo capace e lungimirante organizza le cose in modo da preparare una transizione dolce verso l’economia circolare, non limitandosi solo a incentivare il riciclo (come è bene si faccia e si sta facendo con PNRR) ma, al tempo stesso, incentivando la riduzione della quantità di rifiuti prodotti e quindi da riciclare (e su questo non ci sono segnali).

ANCHE PERCHÉ, NON DIMENTICHIAMOLO, riciclare non è gratis: costa energia (cioè gas ed elettricità, tanto per mettere il dito nella piaga degli effetti della guerra in Ucraina), emissioni, risorse fisiche. Meno di quelle richieste dal materiale vergine, vero, ma pur sempre in quantità significative. Allungare la vita dei prodotti, invece, non costa niente.