Jacopo Ligozzi, “Matrimonio mistico di Santa Caterina”, olio su lapislazzuli, collezione privata

Lo scopo di questa mostra Meraviglia senza tempo, che si può vedere fino al 23 gennaio, è difficile da definire attraverso il titolo: ogni cosa ha un tempo soprattutto quando, come in questo caso, non si parla di una cosa sola. Nonostante si pensasse, fra Cinque e Seicento, che la pittura su pietra assicurasse l’eternità, ciò non è vero – nulla è eterno. Dipingere su pietra, su rame o su qualunque supporto particolarmente duro non garantisce la longevità: innanzitutto è assai difficile, per non dire impossibile, restaurare cadute di colore o garantire incolumità ai materiali per quanto forti essi siano, tenendo anche conto che la preparazione è assai complessa. La pietra, poi, non è immune all’umidità che è nemica della conservazione.
Il catalogo in cui si esamina questa rassegna (Officina Libraria, pp. 302, e 40,00) è composto da una serie di saggi che iniziano con le ottime presentazioni delle due organizzatrici, Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini, seguite da otto scritti di vari studiosi per un totale di centoventicinque pagine riccamente illustrate – già di per sé questo è un libro di grande utilità. A tutto ciò segue il catalogo vero e proprio delle opere esposte, altre centocinquanta pagine affidate ad altri ricercatori.
Nonostante il sottotitolo – Pittura su pietra a Roma fra Cinquecento e Seicento – la mostra non comprende solo pitture su pietra e inizia infatti con un mobile fatto di ebano e pietre dure, di cui mi sono occupato anche io, appartenuto agli eredi di Paolo V, i Borghese, ai quali giunse nel 1673 come ora è stato scoperto da Marina Minozzi. Nulla sappiamo della sua esecuzione ma il grandioso stipo era in origine dei Gomez, banchieri portoghesi che lo vendettero a un loro connazionale, un membro della famiglia Fonseca cliente di Gian Lorenzo Bernini. Queste informazioni aiutano a stabilire una data ante quem per l’esecuzione del lavoro, 1641, quando esso compare nell’inventario dei beni di Luigi Gomez (evidentemente lo stemma di Paolo V oggi sul mobile fu apposto dai Borghese visto che il papa era morto nel 1621). Secoli dopo lo stipo venne acquistato dal futuro Giorgio IV; rimase nelle collezioni reali inglesi fino al 1959 quando venne messo all’asta e alienato per una cifra modesta, che oggi appare addirittura ridicola. Non sappiamo con esattezza chi furono gli autori di questo superbo arredo: per esso proposi alcuni nomi ma non sono in grado di sostenere quelle mie vaghe supposizioni perché nulla sappiamo dei possibili fornitori dei Gomez, portoghesi a Roma. Nel 2016 lo stipo passò all’asta di nuovo, presso Sotheby’s a Parigi, e lo Stato italiano fece male a non acquistarlo: venne venduto al Museo J. Paul Getty, per una cifra molto ragionevole, due milioni e mezzo di euro – il costo di qualche metro di autostrada. Si tratta, insieme al cosiddetto Stipo di Sisto V, conservato in Inghilterra, a Stourhead, e agli stipi di Palazzo Colonna, di uno dei più importanti mobili romani del Seicento.
Soffermiamoci ora sui quadri dipinti su pietra. A quanto pare fu il frate veneziano Sebastiano del Piombo a ideare questa tecnica, come citava puntualmente Michael Hirst in un suo articolo famoso del 1961. Nulla è nuovo sotto il sole e di pittura a olio su muri o pietre era già questione da molto tempo prima, ma nessuno la portò a termine con maggior successo di Sebastiano, che arrivò quasi a irritare il divino Michelangelo a cui voleva imporre la tecnica da lui codificata per la Cappella Sistina. Nel presente catalogo si specifica come nella Cappella Chigi di Santa Maria del Popolo Sebastiano dipinse la Nascita della Vergine su una lastra di peperino incastrata nel muro. Altrove, a San Pietro in Montorio, appaiò la pittura su muro con l’olio all’affresco. Forse è lecito dire che nessuno più di lui raggiunse la perfezione nella pittura su pietra: e qui basta citare il Cristo portacroce del Museo del Prado e la Pietà di Úbeda, iniziata nel 1533 e appartenente alla Casa di Medinaceli, anch’essa oggi al Prado (cm 124×111, su ardesia). In mostra è esposto il suo ritratto di Clemente VII (olio su lavagna, cm 50×34, databile attorno al 1530), un’immagine di straordinaria emotività dove i lineamenti scultorei del papa esprimono il disastro sofferto durante il Sacco di Roma.
Un notevole studioso francese, occhio acuto e gusto sicuro, Michel Hochmann, riuscì qualche anno fa a indovinare un piccolo dipinto su lavagna che risulta descritto, senza che alcuno se ne fosse accorto, fra i quadri appartenuti a Fulvio Orsini che finirono nel Museo di Capodimonte insieme alla raccolta Farnese. Ecco le parole esatte con cui venne descritto all’epoca: «quadretto corniciato di pero tinto con il ritratto di un giovane in pietra di Genova, di mano del medesimo (Daniele)». Non manca di interesse paragonare nella stessa mostra il modo di fare di Daniele da Volterra a quello forse più franco e meno letterario di Sebastiano del Piombo. Nello stesso catalogo Andrea G. De Marchi pubblica un dipinto su lavagna di Daniele da Volterra, con Davide e Golia, che, anche se di minori dimensioni, appare molto simile alla versione più nota nel Museo del Louvre anch’essa su lavagna (cm 133×172), e colgo qui l’occasione per ricordare come quest’ultima venne presentata dal Principe di Cellamare, napoletano e ambasciatore di Spagna, a Luigi XIV poco prima della morte del sovrano nel 1715.
Nel saggio di Francesco Freddolini si riproduce invece un piano agli Uffizi senza menzionare il pendant di questo magnifico lavoro conservato nel Museo del Louvre. Su questi due commessi mi ero soffermato diversi anni or sono. A me interessavano perché ambedue questi capolavori fiorentini si basano su disegni di Jacopo Ligozzi, veronese ma attivo soprattutto a Firenze e autore squisito di molti disegni per la Galleria medicea dei lavori in pietre dure. Nel tavolo degli Uffizi compaiono degli uccelli, un Cardinale rosso che si basa su un disegno di Daniel Fröschl (come ha dimostrato ora Freddolini) e un altro uccellino, l’Emberiza paradisea, con una coda particolarmente vistosa formata da due lunghe penne, per cui esiste un magnifico disegno di Ligozzi conservato nel Gabinetto degli Uffizi, che illustrai. Esiste anche una serie di disegni di vasi che si deve ancora all’estro del Ligozzi e possono essere paragonati a quelli intarsiati sul tavolo agli Uffizi e su quello al Louvre. I due piani erano stati portati via dai francesi alla fine del Settecento ma solo uno tornò a Firenze. È quasi certo che Ligozzi ebbe occasione di disegnare «questo raro volatile nel serraglio granducale dato che Michel de Montaigne nel suo celeberrimo Voyage d’Italie narra che “a Pratolino dans une très belle et grande volière nous vîmes des petites oiseaux qui ont à la queue deux longues plumes”». Ci sono comunque altre informazioni su questi due magnifici lavori che qui non sto a ripetere (Il Tempio del Gusto, Longanesi 1986, pp. 76-77).
Forse è qui opportuno illustrare un altro lavoro del Ligozzi non troppo noto, un altarolo in ebano e pietre dure con delicato dipinto a olio su rame, piccole sculture in argento e sulla base una pittura su lapislazzuli raffigurante Abramo e Isacco. Questo oggetto (cm 58,4×33,7 x8,3) fa veramente al caso nostro poiché in un’opera sola si vedono due modi diversi di dipingere, sul metallo e sulla pietra. Siamo nel 1608, a Firenze e probabilmente nella Galleria dei lavori del Granduca: un’opera di ridotte dimensioni ma da considerare come un vero capolavoro. Conserva ancora la sua custodia lignea originale che potei a suo tempo illustrare (Il Tempio del Gusto, 1986, figg. 173-174). A quest’opera si aggiunge un altro gioiello di mano dello stesso artista, già presso Kugel a Parigi nel 2019. Parlo di un Matrimonio mistico di Santa Caterina su lapislazzuli (cm 15,5×10,5) ancora nella sua lussuosa cornice originale.
Ma per tornare ai pittori su pietra di cui si occupa la mostra, a mia opinione l’uomo che riuscì meglio dei suoi colleghi a utilizzare non solo il lapislazzuli e le materie preziose ma anche l’alabastro, la pietra dendritica, la paesina, è il fiorentino, attivo soprattutto a Roma, Antonio Tempesta. Allievo a Firenze di un estroso pittore fiammingo, Giovanno Stradano, seppe bene guidare il proprio estro o, per dirla col suo biografo Giovanni Baglione, «mostrò il suo valore in quelle figurine piccole… fatte con tanta vivacità e bello spirito che innamorano i virtuosi a vederle». Disse bene il Baglione e nessuno degli artisti oggi a Villa Borghese sa utilizzare meglio i fondi, appunto, della pietra dendritica e della paesina: nei due ovali del museo di Vienna (ma provenienti dalla Kunstkammer di Rodolfo II a Praga) o nella Presa di Gerusalemme su paesina che si trova in Villa Borghese fin dal primo Seicento, non si è mai vista una tale maestria nell’intendere la verità della natura e farla diventare spogli rami d’alberi come appaiono d’inverno nelle cacce rudolfine o edifici costruiti da mano umana utilizzando le sagome naturali nella pietra. In questi lavori le figurine si inseriscono sui fondi con la grazia apprezzata dal Baglione, spesso miglior critico che pittore.
Di tutto questo mi sono occupato tante volte e gli autori del catalogo me lo riconoscono. Purtroppo uno dei miei saggi sui lavori in pietre dure romani è stato citato aggiungendo al mio nome quello della brava traduttrice; errore forse provocato involontariamente consultando quel mio saggio online dove inspiegabilmente il nome di Emma Bassett viene unito al mio come autore («Furniture History», vol. XLVI, 2010, pp.1-135, Concerning Furniture. Roman documents and inventories by Alvar González-Palacios: a p. 24 «translated from the Italian by Emma Louise Bassett).