Il vuoto afghano e la lezione dell’Urss
Opinioni La scelta sovietica dell’89 insegna che col ritiro delle truppe serve un piano a lungo termine, una visione per ricompensare, in parte, i danni di un conflitto durato vent’anni
Opinioni La scelta sovietica dell’89 insegna che col ritiro delle truppe serve un piano a lungo termine, una visione per ricompensare, in parte, i danni di un conflitto durato vent’anni
La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan ormai prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo.
CON UN RAGIONAMENTO molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser assai più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.
Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il Paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno Stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per le donne che, all’epoca del soviet afghano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa.
Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile ‘89 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbaciov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah.
NON POTENDO PIÙ erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro. Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile.
I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera.
CONTINUANDO a finanziare l’esercito afghano con stipendi decorsi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afghane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.
Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo. L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 mld di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5%…
La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle Ong – locali e internazionali – attive nel Paese. Andrebbe aggiunto un quadro di «accompagnamento» guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati.
UNA RIFORMULAZIONE dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i Paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco.
Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento