Cultura

Il vuoto a perdere delle identità

Il vuoto a perdere delle identitàDisegno di Marco Lovisanti

Jérome Ferrari Un’intervista con lo scrittore corso, in Italia per presentare «Banco Atlantico», epopea dell’abbandono della militanza indipendentista in un’isola marchiata a sangue da faide fratricide

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 28 novembre 2013

Alla disillusione vero la politica ha risposto con la letteratura, al mito totalizzante del nazionalismo, che lo aveva lungamente affascinato, ha sostituito la crescente consapevolezza che di identità se ne possono possedere più d’una e che ogni «mondo» simbolico che costruisca la mente umana è destinato prima o poi ad una fine. Jérome Ferrari è sopravvissuto a tante piccole apocalissi culturali, a partire da quella, per lui fondativa, ingenerata dal conflitto tra il senso di appartenenza che nutre per la sua Corsica e la vita di intellettuale cosmopolita che si è costruito con il passare degli anni. Una tensione creativa che ne ha fatto uno degli scrittori più stimolanti e innovativi della narrativa «francese» degli ultimi anni.

Quarantacinque anni, nato a Parigi da una famiglia corsa, già militante del «Movimento per l’autodeterminazione» dell’isola guidato da Alain Orsoni – tra i fondatori del gruppo clandestino Flnc -, redattore della rivista nazionalista Paese, quindi insegnante di filosofia nei licei francesi dei paesi arabi, Ferrari ha vinto nel 2012 il Goncourt, il più importante premio letterario transalpino, con Il sermone sulla caduta di Roma, l’ultimo di sei romanzi che mescolano il noir alla filosofia, la storia della Corsica e del Mediterraneo alle grandi vicende del Novecento, le sfide e le sconfitte individuali al tramonto dei miti e delle ideologie collettive. Lo scrittore corso è stato recentemente ospite del Centre Saint Louis di Roma, dove ha presentato Balco Atlantico (pp. 154, euro 16,50), un suo romanzo del 2008 appena uscito nel nostro paese per le edizioni e/o che il prossimo anno pubblicheranno anche il suo Un dieu un animal.

A partire dalla sua esperienza diretta nel movimento indipendentista corso, in “Balco Atlantico” lei ha scelto di descriverne la lenta deriva verso la criminalità e, a tratti, il razzismo. Un modo per dire addio alle sue illusioni giovanili?

Diciamo che la scelta di scrivere questo romanzo ha rappresentato la fine della fine della mia militanza nazionalista. Il distacco è avvenuto gradualmente, pian piano. Il romanzo è arrivato solo come ultimo tassello. Ci ho messo del tempo, sia a prendere la decisione di scrivere di questa esperienza, sia poi, concretamente, a costruire la storia, pagina dopo pagina. E questo, proprio perché quella che avevo vissuto era stata una disillusione incommensurabile: ho creduto fino in fondo nelle idee dell’indipendentismo e ho davvero sofferto quando ho capito che le persone che avevo intorno pensavano in realtà al proprio tornaconto personale o a portare a termine la loro vendetta su questa o quell’altra fazione o esponente del movimento. La rivendicazione dell’identità culturale corsa mi interessa ancora, ma dalla militanza politica mi tengo ormai a debita distanza.

Malgrado il bilancio a tinte forti che ne fa ora, nel romanzo non tutto l’ambiente nazionalista è descritto in modo negativo, malgrado su tutti i personaggi aleggi un’atmosfera di sconfitta. Perché?

La sconfitta è quella di un’intera comunità che è finita per farsi la guerra al proprio interno, a contare i morti per mano «amica», dividendosi come in una faida di paese di quelle che in Corsica conosciamo bene, invece di battersi per le idee che diceva di voler sostenere. Non tutti però, nella realtà, si sono comportati allo stesso modo, hanno avuto la medesima responsabilità nel distruggere tutto. Così, ho voluto descrivere ciò che ho vissuto senza lasciare spazio a forzature o a dei toni caricaturali, ma attraverso le storie di persone normali che facevano i conti con le sacre certezze della loro militanza politica, ma, allo stesso tempo, con i loro dubbi, le loro fragilità, le loro contraddizioni di esseri umani. Per questo, nel romanzo, tra gli indipendentisti ci sono figure inquietanti e negative, ma anche personaggi positivi che continuano a difendere ciò in cui credono.

La guerra per clan tra i nazionalisti è scoppiata nella seconda metà degli anni Novanta, «Balco Atlantico» è uscito in Francia nel 2008, oggi come guarda alla situazione della Corsica?

La Corsica è prima di tutto un paese paradossale. Da un lato è forse uno dei posti più sicuri e dove la vita può essere più piacevole rispetto a tutto il resto dell’Europa. Dall’altro è come immersa in una spirale di violenza di cui non si riesce a vedere la fine. Dopo la crisi che ha scosso gli ambienti dell’indipendentismo, gli ultimi anni, e anche gli ultimi mesi, sono stati contrassegnati da una lunga serie di regolamenti di conti sanguinosi tra gruppi mafiosi per la spartizione delle risorse economiche locali. E in un’isola dove vivono poco meno di 250mila persone, una simile situazione non può che finire per corrompere e avvelenare il clima generale. Oggi, le persone vivono sotto una cappa di paura e rassegnazione. L’anno scorso, quando ho vinto il Goncourt, molti amici mi hanno telefonato dall’isola per dirmi che era davvero bello che della Corsica si parlasse almeno per una volta per una buona notizia e non a proposito dell’ennesimo fatto di sangue.

L’idea di poter fare i conti con la perdita delle proprie illusioni, con la fine di ciò in cui si è creduto, sembra aver a che fare anche con il tema del romanzo che le ha fatto vincere il Goncourt e che si presenta coma una sorta di riflessione narrativa sulla «fine dei mondi» («il manifesto» del 18/05/2013), è così?

Nel Sermone sulla caduta di Roma, l’ultimo tra i romanzi che ho scritto, sono cristallizzati tutti gli elementi che avevo già disseminato nei libri precedenti. Così, se in Balco Atlantico, sullo sfondo delle querelle mortali tra nazionalisti, cercavo di esaminare la relazione che corre tra l’identità e la memoria, argomento che è poi alla base di ogni rivendicazione nazionale, di ogni movimento identitario che deve in qualche modo «inventare» il suo passato per potersi legittimare, il tema del tramonto delle illusioni, della fine di «un mondo» e insieme della coesistenza tra diversi mondi, è in un modo o nell’altro presente in gran parte di quello che ho scritto fino ad ora.

Perché tanto interesse per questi argomenti?

Lo devo alla mia biografia. Da piccolo, mi dividevo tra Vitry, la cittadina della banlieue parigina in cui si era trasferita la mia famiglia e dove sono nato io, e il villaggio di Fozzano, in Corsica, da dove venivano i miei e dove trascorrevo le vacanze. Così, fin da adolescente ho avuto la sensazione di non appartenere al mondo in cui passavo la maggior parte del mio tempo, vale a dire Parigi e la scuola, ma alla Corsica. Perciò, appena laureato mi sono trasferito sull’isola, pensando che stavo in qualche modo tornando «a casa mia». E qui, più tardi, ho provato nuovamente una sensazione di distanza, se non di estraneità, dopo che la mia «carriera» di militante nazionalista si è conclusa. A quel punto ho cominciato a cercare lavoro all’estero, prima in Algeria e quindi ad Abu Dhabi, per esplorare nuove strade. Così, personalmente ho finito per identificarmi con l’idea che in noi coesistano molteplici identità e mondi differenti e che, al contempo, ogni mondo, esattamente come ogni essere vivente, possa esaurirsi, perire, e un altro possa subentrargli: accade per le idee come per le persone.

Per questo ho deciso di ispirarmi ad un sermone scritto nel 410 da Sant’Agostino all’indomani del sacco di Roma da parte dei Vandali, per scrivere un romanzo come Il sermone che parla in realtà ancora una volta della Corsica e dei suoi abitanti lungo un arco temporale che va dalla Prima guerra mondiale fino ai giorni nostri. Agostino spiegava che non ci si doveva disperare per la distruzione di Roma, perché un mondo «è come un uomo: nasce, cresce e muore». Quando siamo disperati, come in questa fase storica, dovremmo ricordarci che le cose funzionano così: una crisi può essere la fine di “un mondo”, non del mondo.

In «Dove ho lasciato l’anima» (Fazi, 2012) lei si è misurato con l’orrore della guerra d’Algeria e con l’epilogo del colonialismo francese riflettendo su come dei semplici soldati si fossero trasformati in torturatori e carnefici. C’è un rapporto tra la memoria coloniale del Maghreb e la situazione vissuta dalla Corsica, un tempo definita da molti come una «colonia interna» di Parigi?

Un rapporto forte c’è, ma in un’altra prospettiva da quella che lei delinea. I corsi hanno da sempre costituito una forte base di reclutamento per l’esercito francese e per l’amministrazione coloniale in Algeria come in Indocina. Personalmente non ho avuto parenti che hanno combattuto in questi paesi, ma molti miei amici e conoscenti sì. Questo ha legato per molti versi il destino della Corsica a quello di altri territori assoggettati al potere della Francia. In realtà, però, credo di essere riuscito a scrivere questo romanzo, a raccontare la perdita di umanità dei torturatori, la loro discesa verso un inferno di sofferenza inflitta e subita, proprio perché nessuno della mia famiglia, dei miei affetti, era stato coinvolto in tutto ciò. Altrimenti sarebbe stato davvero difficile, se non impossibile, parlarne. Piuttosto, l’idea del romanzo mi è venuta quando insegnavo filosofia al liceo francese di Algeri. Avevo voglia di descrivere come quella guerra, ma in realtà tutte le guerre, avesse trasformato delle persone normali in mostri. Qualcosa che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, malgrado sia chiaro chi all’epoca fosse dalla parte del torto – i francesi – e chi della ragione – gli algerini -, riguardò entrambe le fazioni in lotta.

 

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