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Il voto di fiducia a tutti i costi

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Senato L’aula è un ring, lo zelo di Grasso ritarda i lavori, corsa nella notte

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 9 ottobre 2014

Era andata troppo liscia. Alla fine l’incidente doveva capitare, e per l’occasione ha rivestito i panni di Pietro Grasso, presidente del Senato. E’ tarda mattinata, il dibattito generale è terminato. La parola è al ministro Poletti, che recita la sua parte. Spiega che per il governo «prioritaria e centrale è la delega in tutta la sua portata, non solo l’articolo 18 che rappresenta una parte significativa», ma insomma, «meno decisiva di quanto si possa ritenere».

La minoranza Pd, piegata e vinta, finge di non sentire, nei corridoi di palazzo Madama i senatori ex dissidenti sfideranno il ridicolo affermando che in fondo qualcosa il governo ha recepito, che comunque la fiducia mica si può non votarla, che però alla camera ne vedranno delle belle (sempre che Renzi non ricorra alla fiducia e lo farà). Nel pomeriggio una parte di detta minoranza partorirà un documento, al quale si contrapporrà però Gianni Cuperlo senza che nessuno dei due convinca Pippo Civati. Più da piangere che da ridere.

Fi, l’opposizione per finta, ha scelto una via particolarmente contundente per segnalare il suo dissenso. Figurarsi che nella discussione generale non ha preso la parola neppure un azzurro. Roba forte. Con Sel, M5S e Lega la musica è diversa. I pentastellati strepitano, interrompono il ministro, sventolano fogli bianchi per denunciare la delega in bianco che il governo sta per ottenere. Un presidente del Senato capace di esercitare la funzione farebbe finta di niente, chiederebbe al ministro di proseguire e finirebbe nei tempi previsti. Questo si aspetta Renzi, che vuole annunciare al minivertice Ue di Milano la lieta novella con i lavori in corso.

Invece no. Grasso perde la testa. Urla peggio dei grillini, e finisce per scatenare la rissa. Espelle il capogruppo a 5 stelle Petrocelli, che si rifiuta di uscire, e se in aula non volano i pugni poco ci manca. Sono i “moderati moderni” del Pd a caricare, finendo a un pelo dalla scazzottata con Giovanni Barozzino, Sel, ex operaio di Fiat di Melfi licenziato per motivi politici e poi reintegrato. Storie di ieri. Il secondo cittadino dello Stato, paonazzo, ordina alla «polizia d’aula», come lui stesso la definì in una memorabile occasione, di cacciare il sedizioso. Sul tavolo della presidenza vola di tutto, la seduta è sospesa, pentastellati e leghisti occupano l’aula. In quello stesso momento sfuma la possibilità di presentare in giornata ai guardiani europei del rigore lo scalpo di quello che fu il simbolo dei diritti dei lavoratori.

La conferenza dei capigruppo, riunita poche ore dopo, fissa infatti un calendario a passo di marcia. Due ore di discussione, poi le dichiarazioni di voto e la conta finale in tempo per presentare il vessillo conquistato agli europei prima della nanna. E’ un’assurdità: il maxiemendamento su cui verrà posta la fiducia non è ancora pronto. I senatori dovranno quindi discutere e poi votare un emendamentone che avranno appena avuto il tempo di sbirciare. Poco male. Quel che conta è correre.

A Milano Renzi è imbufalito. Ma cosa gli è venuto in mente a quel Grasso? C’è o rema contro? Repentino parte l’ordine: il voto deve arrivare prima di domani. Tassativo. Grasso si adeguerà. Mica facile. Per regolamento tutti i senatori possono intervenire sul calendario. Loredana De Petris, presidente Sel, chiede per prima di rivedere le decisioni dei capigruppo, seguiranno a ruota decine di senatori. Grasso per un po’ tiene a freno i nervi, poi sbotta di nuovo e l’aula torna a fare da ring. Sul tavolo del presidente vola addirittura una copia del regolamento. I commessi quasi non ce la fa a sedare i focolai di rissa. Alla fine la tribuna stampa viene fatta sgomberare un attimo prima che il Pd Cociancich arrivi più o meno alle mani con De Petris.

L’unica ormai è andare avanti a oltranza, e contro ogni logica Grasso decide di farlo, come da ordini superiori. Da Milano Renzi tuona contro le «sceneggiate», la «mancanza di rispetto» dei senatori, «si può non essere d’accordo ma la correttezza del dialogo parlamentare prevede che si consenta di votare», reclama. Così il premier potrà svegliare nel cuore della notte i partner europei e dargli la felice notizia prima che il gallo canti.

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