Il volto nascosto dell’Austria più «nera»
Rassegne Si chiude stasera, mercoledì 8 luglio, a Roma la manifestazione dedicata al cinema austriaco. Ultimo titolo Goodnight Mommy di Veronika Franz
Rassegne Si chiude stasera, mercoledì 8 luglio, a Roma la manifestazione dedicata al cinema austriaco. Ultimo titolo Goodnight Mommy di Veronika Franz
Si chiude stasera, all’insegna dell’horror, la terza edizione della rassegna «Sotto le stelle dell’Austria» che per questa edizione ha proposto una carrellata sulle diverse gradazioni del noir nel cinema austriaco degli ultimi anni con molti titoli inediti in Italia, come il film di apertura Das Ewige Leben di Wolfgang Murnberger, ultimo capitolo di una trilogia thriller tratta dai romanzi di Wolf Haas. Ma c’è stato anche spazio per un tributo a Orson Welles nell’anno del centenario della sua nascita: il regista inglese Carol Reed gli aveva infatti ritagliato il ruolo da attore, forse più bello della sua carriera, nei panni di Harry Lime in Il terzo uomo, ambientato proprio nella capitale austriaca devastata dai bombardamenti e divisa tra gli alleati all’indomani della seconda guerra mondiale.
Per concludere la manifestazione che si tiene al Forum austriaco di cultura di Roma si torna però in tempi recenti con Goodnight Mommy, l’opera prima di Veronika Franz presentata l’anno scorso negli Orizzonti veneziani. A produrre questo esordio c’è il marito di Franz, il regista Ulrich Seidl, lucido dissacratore per immagini – basti pensare tre anni fa alla Mostra di Venezia la contestazione di Militia Christi contro il suo Paradise: Faith.
Ambientato in una villa immersa nei boschi, dove vive una madre con i suoi due figli Lukas ed Elias, Goodnight Mommy è un horror psicologico che punta tutto sull’atmosfera, a cui sacrifica anche alcuni nessi della trama lasciati volutamente oscuri per aumentare il disagio ed il mistero. La madre dei protagonisti ha il volto interamente ricoperto di fasce a causa di un recente intervento – non sapremo mai se di chirurgia estetica o altro – e dai discorsi di Lukas ed Elias capiamo che il suo carattere è estremamente cambiato da quando è tornata a casa. Li sgrida, si rifiuta di parlare con uno di loro, vuole silenzio assoluto e tapparelle abbassate. I due sono sempre più convinti che quella che vive sotto il loro stesso tetto non sia più la loro mamma, mentre lei non si sforza troppo di smentire i loro dubbi, che continuano a crescere anche quando finalmente si toglie le bende.
Questa non è una pipa, spiegava già Magritte svariati anni fa, e costei non è nostra madre, benché abbia il suo stesso volto, la sua voce ed il suo nome. Il problema dell’identità – e dei traumi psicologici – su cui tutto il film si interroga viene posto sin dal titolo (in originale Ich seh ich seh: io vedo io vedo) e dallo stesso incipit, quando la famigliola non troppo felice gioca ad indovinare i nomi che hanno scritti in un foglietto sulla fronte. Il mistero posto dal fatto che i bambini non riconoscono più la madre si raddoppia poi nel rifiuto di questa di rivolgersi ad uno dei due gemelli, enigma che alla fine verrà svelato da un colpo di scena ormai più che prevedibile. Veronika Franz, insieme allo sceneggiatore Severin Fiala, procede per lunghe ed estenuanti sequenze nel costruire la sua atmosfera orrorifica, il suo edificio di dubbio e disagio in cui tutto potrebbe avere una risposta razionale ma dove non c’è soluzione certa alle domande dei piccoli protagonisti e dello spettatore. Anche su piccoli particolari inquietanti: che ci fanno ad esempio due bambini con un allevamento di scarafaggi giganti?
Quando poi si tratta di far esplodere il«bubbone», si vira su un’ultra-violenza che crei il maggior disagio possibile in chi guarda, ma che ha l’aria della scappatoia furba di una storia non ben calibrata. Si approfitta così dell’impossibilità di rimanere indifferenti di fronte a certe cose e gioca con il fuoricampo per riportarci subito nel cuore della vicenda a cui non vorremmo più assistere.
Il pensiero va all’escalation di un film come Funny Games di un altro regista austriaco, Michael Haneke, in cui però il senso di impotenza e fastidio dello spettatore che assisteva al massacro finale era l’apice di una costruzione perfetta e crudele che si interrogava più sul cinema che sui drammi familiari.
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