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Il volo di un falco libero, sul villaggio

Il volo di un falco libero, sul villaggio

Intervista Hevi Dilara, artista curda a Roma, che considera senza retorica seconda patria, continua a coltivare, ad alimentare la speranza di libertà del suo popolo, organizzando iniziative, convegni, rassegne di cinema; affidando alla carta poesie di amore e di lotta.

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

Il viaggio di un profugo è sempre verso l’ignoto. Ma, di questo viaggio, ogni profugo conserva tracce di memoria. Tragiche, segnate dalle sofferenze, a volte impossibili da decifrare.

Nel viaggio di Hevi Dilara, donna curda allora poco più che ragazzina, c’è un buio lungo quanto i chilometri da Spalato a Milano. Chilometri consumati tra le ruote e il cassone di un camion, dividendo l’esiguità dello spazio con cinque uomini che fuggivano, uno solo curdo come lei. Chilometri di cui Hevi non porta ricordo «A un certo punto mi si chiusero gli occhi, li riaprii non so quanti giorni dopo, il cinque giugno del 1996, in un letto d’ospedale a Milano.

Accanto al letto c’era un poliziotto. Con dolcezza mi disse ‘Sei arrivata in Italia’». Sette mesi il tempo necessario a ottenere asilo politico. Poi la decisione di lasciare Milano per Roma, dove oggi Dilara vive a due passi da piazza Vittorio, quartiere Esquilino. A Roma, che considera senza retorica seconda patria, continua a coltivare, ad alimentare la speranza di libertà del suo popolo, organizzando iniziative, convegni, rassegne di cinema; affidando alla carta poesie di amore e di lotta. È scappata dalla sua patria, Hevi. E se la ragione di tale scelta appare così assurda da divenire incredibile, apre le porte di un mondo che da decenni subisce persecuzioni, omicidi, deportazioni, isolamento. Hevi è scappata perché faceva parte di un gruppo musicale. «Sono stata torturata e incarcerata per aver deciso di cantare in curdo, affermando così un’identità, una cultura, una lingua, che la Turchia continua a negare.

Tra il 1990 e il 1996, esercito e polizia hanno deportato gli abitanti e distrutto più di quattromila paesi e villaggi; hanno imprigionato e ucciso i giovani, i giornalisti, gli intellettuali. L’obbiettivo era, come si dice da noi, ‘Lasciare il pesce senza acqua’, cioè il Kurdistan senza curdi. Il mio arresto e quello degli altri componenti del gruppo mi pose davanti a una scelta: andarmene, o rischiare di entrare a far parte del lungo elenco di desaperecidos e di detenuti senza colpa. Con l’aiuto della mia famiglia preparammo la partenza. Rimasi un anno nascosta, poi, acquistando un passaporto falso da uno dei tanti poliziotti che speculano sui profughi, riuscii ad arrivare a Spalato». ‘Sei in Italia’, le aveva detto il poliziotto. E qui Hevi riesce ad avere il telefono dell’Ufficio informazioni del Kurdistan a Roma. Tramite il personale dell’Ufficio e grazie all’aiuto del giornalista e militante per i diritti umani Dino Frisullo, fa richiesta di asilo politico, ottenendo lo status di rifugiata politica.

La patria abbandonata, l’assenza della famiglia, la sensazione di solitudine che anche il Paese più accogliente è incapace di cancellare, creano un’altra zona buia dentro il cuore di Hevi «Avevo sofferto, lasciato gioventù e futuro alle spalle. Venire in Italia non era stata una scelta, non c’era nessuna spalla amica sulla quale appoggiare la testa. Dal Kurdistan, ogni giorno, arrivavano notizie terribili che parlavano di stragi di donne e bambini. Mi travolse una depressione profonda, riuscivo a dormire si e no un’ora al giorno. Durò alcuni mesi, e devo a un piccolo episodio la spinta iniziale a uscirne. Dal mercato di piazza Vittorio sentivo le grida dei venditori dei banchi, una in particolare, ‘Daje, daje!’. Pensai ‘Al mercato ci sono i curdi’, perché, nella nostra lingua, daje significa mamma. Ovviamente di mamme curde non ce n’erano e gli uomini, gridando daje, invitavano a comprare pomodori, verdura, frutta.

Fu una scintilla: due lingue diverse, che hanno parole in comune pur se esprimono cose diverse. La seconda scintilla la fece scattare il ricordo della forza di mia madre quando subivamo irruzioni in casa, venivamo calpestati mentre dormivamo ancora, mio padre era portato via per essere interrogato, i soldati ci puntavano il fucile alla testa. Mia madre, allora, diceva semplicemente ‘Non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo saper reagire’. Così, mi sono risvegliata». Un risveglio che riporta al mondo Dalara e le indica la strada da prendere: diventare la voce di se stessa e del suo popolo, raccontare a tutti ciò che i curdi hanno subito e continuano a subire «Decisi che mi sarei affidata alla poesia. In italiano, con l’aiuto di un vocabolario. A quei primi versi diedi il titolo Nostalgia. Accanto alla poesia, l’impegno politico.

Entrai a far parte dell’Associazione Europa Levante, che si rivolgeva alla società civile e spiegava le verità su un dramma in atto dentro i confini di una nazione vicina all’Italia. Andavo nelle scuole, partecipavo a iniziative e manifestazioni. Poi nacque l’idea di far conoscere il cinema curdo, i suoi protagonisti, le fonti cui si ispira, privilegiando la forma documentario, e di portare sulla scena anche la musica del Kurdistan». Hevi Dilara diviene direttore artistico del Festival del Cinema Curdo, alla sala Aquila di Roma. Nello stesso periodo gira un documentario di tredici minuti, La vita per lei, raccolto insieme ad altri cinque sotto il titolo collettivo Benvenuti in Italia. Autori e registi sono rifugiati appartenenti a etnie diverse, messaggio e appello comune la libertà. La vita per lei poggia sulla storia di una famiglia curda che ha subito violenze, anni di carcerazione e dure condanne. Nel Centro di Accoglienza di Ercolano trascorre circa un anno mezzo, dividendo gli spazi angusti di una stanza spoglia, senza riuscire ad avere un punto di riferimento. Il sogno di libertà che volevano realizzare dopo essere fuggiti si è trasformato in un’altra prigione, diversa ma pur sempre prigione? Senso di fallimento, sconfitta, impotenza aprono ulteriori interrogativi. Dice la poetessa e regista «Questa gente, a cominciare da me, somiglia a un albero sradicato e piantato altrove. Forse continuerà a crescere, però non sarà più lo stesso, faticherà a vivere».

La voce di Hevi a nome della collettività che prova a rappresentare, si fa particolarmente intensa quando parla delle donne «Ogni giorno lottano nella loro terra contro ciò che anch’io mi sono trovata a subire; rivendicano il diritto all’emancipazione e il riconoscimento politico». Le combattenti curde in Siria, appartenenti allo YPJ, la Forza di Difesa delle Donne, sono divenute golosa preda mediatica occidentale. Rete Kurdistan Italia accusa a giusto titolo carta stampata e televisioni di superficialità e sensazionalismo, ricordando Hevi İbrahim primo ministro di uno dei cantoni autonomi curdi in Siria, Asya Abdullah copresidente del Partito dell’Unione Democratica (PYD) a capo della regione del Rojava, Ramziya Mohammed ministro delle finanze di un altro cantone. A loro bisogna aggiungere il grande numero di candidate presentate alle urne nelle ultime elezioni amministrative in Turchia dai partiti curdi BDP e HDP, dove vige il sistema di un uomo e una donna in ogni posizione dirigente. Tornando alle parole di Hevi «L’impegno a concretizzare una nuova condizione femminile nella mia patria, ad essere attiva per il mio popolo, mi ha portata a vedere con altri occhi il mondo, la poesia, l’amore, il dolore». Libertà, fra le tante sue accezioni, è anche libertà di tornare. Torneresti, dopo vent’anni a Roma, in un Kurdistan libero? Afferma convinta «Si, certo che ci tornerei, lo sogno ogni notte, esserne lontana è una ferita aperta. Anche se Roma è il luogo con cui ho un rapporto di continuità prima impossibile. In Turchia, da perseguitata, mi sono nascosta ovunque, per qualche mese, a volte per cinque anni. Se qualcuno mi chiedesse di quale città del Kurdistan ho nostalgia, non saprei rispondere. L’unica, precisa, nostalgia sono gli odori, i sapori, i colori della natura, i sorrisi dei bambini».

Forse sono miraggio, utopia di libertà, i versi di Nostalgia che Hevi Dilara scandisce ‘Solo chi ha molto amore può amare/ Solo chi ha molta nostalgia può sognare/ Solo chi ama e sogna libertà/ può entrare e conoscere il mio paradiso/ saltare come una gazzella libera sui miei monti/ bagnarsi come un pesce libero nei miei fiumi/ volare come un falco libero sui miei villaggi/ sventolare come la bandiera della libertà nel mio mattino/ Cantare come il bilur nei fuochi del Newroz/ Anche tu, anche lei, lui, loro, tutti/ possono entrare nel mio paradiso/ se sanno far scorrere libertà e amore/ nelle loro vene/ nelle vene del mondo’.

Quel mondo che considera il Kurdistan una tragedia troppo poco redditizia per meritare attenzione.

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